<교황 칙서-모든 형제들아 형제애(兄弟愛)를 !>
FRATELLI TUTTI DEL SANTO PADRE FRANCESCO SULLA FRATERNITÀ E L'AMICIZIA SOCIALE
LETTERA ENCICLICA, FRATELLI TUTTI DEL SANTO PADRE FRANCESCO,SULLA FRATERNITÀ E L'AMICIZIA SOCIALE
1. «Fratelli tutti»,[1] scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».[2] Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.
2. Questo Santo dell’amore fraterno, della semplicità e della gioia, che mi ha ispirato a scrivere l’Enciclica Laudato si’, nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova Enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale. Infatti San Francesco, che si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi.
Senza frontiere
3. C’è un episodio della sua vita che ci mostra il suo cuore senza confini, capace di andare al di là delle distanze dovute all’origine, alla nazionalità, al colore o alla religione. È la sua visita al Sultano Malik-al-Kamil in Egitto, visita che comportò per lui un grande sforzo a motivo della sua povertà, delle poche risorse che possedeva, della lontananza e della differenza di lingua, cultura e religione. Tale viaggio, in quel momento storico segnato dalle crociate, dimostrava ancora di più la grandezza dell’amore che voleva vivere, desideroso di abbracciare tutti. La fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore per i fratelli e le sorelle. Senza ignorare le difficoltà e i pericoli, San Francesco andò a incontrare il Sultano col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi «tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio».[3] In quel contesto era una richiesta straordinaria. Ci colpisce come, ottocento anni fa, Francesco raccomandasse di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna “sottomissione”, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede.
4. Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16). In questo modo è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna, perché «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre».[4] In quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie potenti, mentre crescevano le zone miserabili delle periferie escluse. Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti. A lui si deve la motivazione di queste pagine.
5. Le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie preoccupazioni. Negli ultimi anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi. Ho voluto raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione. Inoltre, se nella redazione della Laudato si’ ho avuto una fonte di ispirazione nel mio fratello Bartolomeo, il Patriarca ortodosso che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso mi sono sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale mi sono incontrato ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro».[5] Non si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto. Questa Enciclica raccoglie e sviluppa grandi temi esposti in quel Documento che abbiamo firmato insieme. E qui ho anche recepito, con il mio linguaggio, numerosi documenti e lettere che ho ricevuto da tante persone e gruppi di tutto il mondo.
6. Le pagine che seguono non pretendono di riassumere la dottrina sull’amore fraterno, ma si soffermano sulla sua dimensione universale, sulla sua apertura a tutti. Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà.
7. Proprio mentre stavo scrivendo questa lettera, ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia del Covid-19, che ha messo in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme. Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti. Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà.
8. Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti: «Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme».[6] Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!
CAPITOLO PRIMO
LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO
9. Senza la pretesa di compiere un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che viviamo, propongo soltanto di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale.
Sogni che vanno in frantumi
10. Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la abita. Ricordiamo «la ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente».[7] Ugualmente ha preso forza l’aspirazione ad un’integrazione latinoamericana e si è incominciato a fare alcuni passi. In altri Paesi e regioni vi sono stati tentativi di pacificazione e avvicinamenti che hanno portato frutti e altri che apparivano promettenti.
11. Ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali. E questo ci ricorda che «ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. È il cammino. Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti».[8]
12. “Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».[9] Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il “divide et impera”.
La fine della coscienza storica
13. Per questo stesso motivo si favorisce anche una perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti. In questo contesto si poneva un consiglio che ho dato ai giovani: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro che lui vi offre, non è forse questo un modo facile di attirarvi con la sua proposta per farvi fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse e sottomettervi ai suoi piani. È così che funzionano le ideologie di diversi colori, che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha preceduti».[10]
14. Sono le nuove forme di colonizzazione culturale. Non dimentichiamo che «i popoli che alienano la propria tradizione e, per mania imitativa, violenza impositiva, imperdonabile negligenza o apatia, tollerano che si strappi loro l’anima, perdono, insieme con la fisionomia spirituale, anche la consistenza morale e, alla fine, l’indipendenza ideologica, economica e politica».[11] Un modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione.
Senza un progetto per tutti
15. Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti Paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte. La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace. In questo gioco meschino delle squalificazioni, il dibattito viene manipolato per mantenerlo allo stato di controversia e contrapposizione.
16. In questo scontro di interessi che ci pone tutti contro tutti, dove vincere viene ad essere sinonimo di distruggere, com’è possibile alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a chi è caduto lungo la strada? Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e il cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e drastico arretramento.
17. Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni».[12]
Lo scarto mondiale
18. Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti. In fondo, «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili».[13]
19. La mancanza di figli, che provoca un invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle persone anziane a una dolorosa solitudine, afferma implicitamente che tutto finisce con noi, che contano solo i nostri interessi individuali. Così, «oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani».[14] Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore e in altre circostanze: crudelmente scartati. Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere.
20. Questo scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà.[15] Lo scarto, inoltre, assume forme spregevoli che credevamo superate, come il razzismo, che si nasconde e riappare sempre di nuovo. Le espressioni di razzismo rinnovano in noi la vergogna dimostrando che i presunti progressi della società non sono così reali e non sono assicurati una volta per sempre.
21. Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale.[16] È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che «nascono nuove povertà».[17] Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico concreto.
Diritti umani non sufficientemente universali
22. Molte volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali diritti «è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune».[18] Ma «osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati».[19] Che cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti fondata sulla medesima dignità umana?
23. Analogamente, l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio. È un fatto che «doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti».[20]
24. Riconosciamo ugualmente che, «malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. […] Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. […] La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine». Le reti criminali «utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo».[21] L’aberrazione non ha limiti quando si assoggettano donne, poi forzate ad abortire. Un atto abominevole che arriva addirittura al sequestro delle persone allo scopo di vendere i loro organi. Tutto ciò fa sì che la tratta di persone e altre forme di schiavitù diventino un problema mondiale, che esige di essere preso sul serio dall’umanità nel suo insieme, perché «come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società».[22]
Conflitto e paura
25. Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno «moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”».[23]
26. Questo non stupisce se notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché in ogni guerra ciò che risulta distrutto è «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana», per cui «ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento».[24] Così, il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia».[25]
27. Paradossalmente, ci sono paure ancestrali che non sono state superate dal progresso tecnologico; anzi, hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie. Anche oggi, dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo. Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”. Riappare «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità».[26]
28. La solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate dal sistema, fanno sì che si vada creando un terreno fertile per le mafie. Queste infatti si impongono presentandosi come “protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di aiuto, mentre perseguono i loro interessi criminali. C’è una pedagogia tipicamente mafiosa che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi.
Globalizzazione e progresso senza una rotta comune
29. Con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb non ignoriamo gli sviluppi positivi avvenuti nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, nell’industria e nel benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati. Ciò nonostante, «sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione […]. Nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi». Segnaliamo altresì «le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali. […] Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile».[27] Davanti a questo panorama, benché ci attraggano molti progressi, non riscontriamo una rotta veramente umana.
30. Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce «a una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione. […] L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì».[28]
31. In questo mondo che corre senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme».[29] La tecnologia fa progressi continui, ma «come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno!».[30]
Le pandemie e altri flagelli della storia
32. Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che «la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».[31]
33. Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo riconoscere che «ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà».[32] Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza.
34. Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella. Viene alla mente il celebre verso del poeta Virgilio che evoca le lacrimevoli vicende umane.[33]
35. Velocemente però dimentichiamo le lezioni della storia, «maestra di vita».[34] Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato.
36. Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che «l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca».[35] Il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia.
Senza dignità umana sulle frontiere
37. Tanto da alcuni regimi politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti. Al tempo stesso si argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e decidano di adottare misure di austerità. Non ci si rende conto che, dietro queste affermazioni astratte difficili da sostenere, ci sono tante vite lacerate. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri, con pieno diritto, sono «alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi».[36]
38. Purtroppo, altri sono «attirati dalla cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative irrealistiche che li espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo, spesso legati ai cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei migranti, che lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la tratta, l’abuso psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili».[37] Coloro che emigrano «sperimentano la separazione dal proprio contesto di origine e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda anche le comunità di origine, che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti, e le famiglie, in particolare quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli nel Paese di origine».[38] Di conseguenza, «va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra».[39]
39. Per giunta, «in alcuni Paesi di arrivo, i fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici. Si diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se stessi».[40] I migranti vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono essere “protagonisti del proprio riscatto”.[41] Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno.
40. «Le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo».[42] Ma oggi esse risentono di una «perdita di quel senso della responsabilità fraterna, su cui si basa ogni società civile».[43] L’Europa, ad esempio, rischia seriamente di andare per questa strada. Tuttavia, «aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, [ha] gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti».[44]
41. Comprendo che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri. Invito ad andare oltre queste reazioni primarie, perché «il problema è quando [esse] condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro».[45]
L’illusione della comunicazione
42. Paradossalmente, mentre crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli altri, si riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il diritto all’intimità. Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante. Nella comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima. Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita fino all’estremo.
43. D’altra parte, i movimenti digitali di odio e distruzione non costituiscono – come qualcuno vorrebbe far credere – un’ottima forma di mutuo aiuto, bensì mere associazioni contro un nemico. Piuttosto, «i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche».[46] C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità.
Aggressività senza pudore
44. Proprio mentre difendono il proprio isolamento consumistico e comodo, le persone scelgono di legarsi in maniera costante e ossessiva. Questo favorisce il pullulare di forme insolite di aggressività, di insulti, maltrattamenti, offese, sferzate verbali fino a demolire la figura dell’altro, con una sfrenatezza che non potrebbe esistere nel contatto corpo a corpo perché finiremmo per distruggerci tutti a vicenda. L’aggressività sociale trova nei dispositivi mobili e nei computer uno spazio di diffusione senza uguali.
45. Ciò ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti. Non va ignorato che «operano nel mondo digitale giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio».[47]
46. Occorre riconoscere che i fanatismi che inducono a distruggere gli altri hanno per protagonisti anche persone religiose, non esclusi i cristiani, che «possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui».[48] Così facendo, quale contributo si dà alla fraternità che il Padre comune ci propone?
Informazione senza saggezza
47. La vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà. Ma oggi tutto si può produrre, dissimulare, modificare. Questo fa sì che l’incontro diretto con i limiti della realtà diventi insopportabile. Di conseguenza, si attua un meccanismo di “selezione” e si crea l’abitudine di separare immediatamente ciò che mi piace da ciò che non mi piace, le cose attraenti da quelle spiacevoli. Con la stessa logica si scelgono le persone con le quali si decide di condividere il mondo. Così le persone o le situazioni che hanno ferito la nostra sensibilità o ci sono risultate sgradite oggi semplicemente vengono eliminate nelle reti virtuali, costruendo un circolo virtuale che ci isola dal mondo in cui viviamo.
48. Il mettersi seduti ad ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. Tuttavia, «il mondo di oggi è in maggioranza un mondo sordo […]. A volte la velocità del mondo moderno, la frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di ascolto». San Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita. Spero che il seme di San Francesco cresca in tanti cuori».[49]
49. Venendo meno il silenzio e l’ascolto, e trasformando tutto in battute e messaggi rapidi e impazienti, si mette in pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana. Si crea un nuovo stile di vita in cui si costruisce ciò che si vuole avere davanti, escludendo tutto quello che non si può controllare o conoscere superficialmente e istantaneamente. Tale dinamica, per sua logica intrinseca, impedisce la riflessione serena che potrebbe condurci a una saggezza comune.
50. Possiamo cercare insieme la verità nel dialogo, nella conversazione pacata o nella discussione appassionata. È un cammino perseverante, fatto anche di silenzi e di sofferenze, capace di raccogliere con pazienza la vasta esperienza delle persone e dei popoli. Il cumulo opprimente di informazioni che ci inonda non equivale a maggior saggezza. La saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo modo non si matura nell’incontro con la verità. Le conversazioni alla fine ruotano intorno agli ultimi dati, sono meramente orizzontali e cumulative. Non si presta invece un’attenzione prolungata e penetrante al cuore della vita, non si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza. Così, la libertà diventa un’illusione che ci viene venduta e che si confonde con la libertà di navigare davanti a uno schermo. Il problema è che una via di fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi e disposti a incontri reali.
Sottomissioni e disprezzo di sé
51. Alcuni Paesi forti dal punto di vista economico vengono presentati come modelli culturali per i Paesi poco sviluppati, invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori della propria cultura. Questa nostalgia superficiale e triste, che induce a copiare e comprare piuttosto che creare, dà luogo a un’autostima nazionale molto bassa. Nei settori benestanti di molti Paesi poveri, e a volte in coloro che sono riusciti a uscire dalla povertà, si riscontra l’incapacità di accettare caratteristiche e processi propri, cadendo in un disprezzo della propria identità culturale, come se fosse la causa di tutti i mali.
52. Demolire l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo. Dietro le tendenze che mirano ad omogeneizzare il mondo, affiorano interessi di potere che beneficiano della scarsa stima di sé, nel momento stesso in cui, attraverso i media e le reti, si cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più potenti. Da ciò traggono vantaggio l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento, dove i poveri sono sempre quelli che perdono. D’altra parte, ignorare la cultura di un popolo fa sì che molti leader politici non siano in grado di promuovere un progetto efficace che possa essere liberamente assunto e sostenuto nel tempo.
53. Si dimentica che «non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri».[50]
Speranza
54. Malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,… hanno capito che nessuno si salva da solo.[51]
55. Invito alla speranza, che «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».[52] Camminiamo nella speranza.
CAPITOLO SECONDO
UN ESTRANEO SULLA STRADA
56. Tutto ciò che ho menzionato nel capitolo precedente è più di un’asettica descrizione della realtà, poiché «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».[53] Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare.
«In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).
Lo sfondo
57. Questa parabola raccoglie uno sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (ibid.). Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri.
58. Il libro di Giobbe ricorre al fatto di avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: «Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in modo diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo».[54]
59. Nelle tradizioni ebraiche, l’imperativo di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle relazioni tra i membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai connazionali. Tuttavia, specialmente nel giudaismo sviluppatosi fuori dalla terra d’Israele, i confini si andarono ampliando. Comparve l’invito a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (cfr Tb 4,15). Il saggio Hillel (I sec. a.C.) diceva al riguardo: «Questo è la Legge e i Profeti. Tutto il resto è commento».[55] Il desiderio di imitare gli atteggiamenti divini condusse a superare quella tendenza a limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir 18,13).
60. Nel Nuovo Testamento, il precetto di Hillel ha trovato espressione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Tale appello è universale, tende ad abbracciare tutti, solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il Padre celeste «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). E di conseguenza si esige: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
61. C’è una motivazione per allargare il cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare già nei testi più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo ebraico di aver vissuto come straniero in Egitto:
«Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20).
«Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 23,9).
«Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34).
«Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto» (Dt 24,21-22).
Nel Nuovo Testamento risuona con forza l’appello all’amore fraterno:
«Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
«Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre» (1 Gv 2,10-11).
«Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14).
«Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
62. Anche questa proposta di amore poteva essere fraintesa. Non per nulla, davanti alla tentazione delle prime comunità cristiane di formare gruppi chiusi e isolati, San Paolo esortava i suoi discepoli ad avere carità tra di loro «e verso tutti» (1 Ts 3,12); e nella comunità di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli, benché stranieri» (3 Gv 5). Tale contesto aiuta a comprendere il valore della parabola del buon samaritano: all’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là. Perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità».[56]
L’abbandonato
63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.
64. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente.
65. Aggrediscono una persona per la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla. Spesso ci sono persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre, poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.
66. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro».[57]
67. Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana.
68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.
Una storia che si ripete
69. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.
70. È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
71. La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada. Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative, come ad esempio: che cosa sarebbe stato di quell’uomo gravemente ferito o di colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero trovato spazio nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome.
I personaggi
72. La parabola comincia con i briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione già consumata. Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona ferita a terra per correre ciascuno a ripararsi dalla violenza o a inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre divisioni inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri intestini?
73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa pericolosa indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno triste riflesso di quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in alcuni Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della loro cultura, e un vivere con lo sguardo rivolto al di fuori, come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro posto. Così si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal loro orizzonte di interessi.
74. In quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani: «Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo. Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire il freddo e la nudità».[58] Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti.
75. I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada guardando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità del delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi personali o corporativi, e altri mali che non riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del “tutto va male” corrisponde un “nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e di generosità. Far sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
76. Guardiamo infine all’uomo ferito. A volte ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra sul bordo della strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e carenti, o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e all’interno. Infatti, «nella società globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi».[59]
Ricominciare
77. Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene.
78. È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[60] Rinunciamo alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine. Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne. La riconciliazione riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri.
79. Il samaritano della strada se ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al servizio era la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per questo un dovere. Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.
Il prossimo senza frontiere
80. Gesù propose questa parabola per rispondere a una domanda: chi è il mio prossimo? La parola “prossimo” nella società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio gruppo, alla propria razza. Un samaritano, per alcuni giudei di allora, era considerato una persona spregevole, impura, e pertanto non era compreso tra i vicini ai quali si doveva dare aiuto. Il giudeo Gesù rovescia completamente questa impostazione: non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi.
81. La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri.
82. Il problema è che, espressamente, Gesù mette in risalto che l’uomo ferito era un giudeo – abitante della Giudea – mentre colui che si fermò e lo aiutò era un samaritano – abitante della Samaria –. Questo particolare ha una grandissima importanza per riflettere su un amore che si apre a tutti. I samaritani abitavano una regione che era stata contaminata da riti pagani, e per i giudei ciò li rendeva impuri, detestabili, pericolosi. Difatti, un antico testo ebraico che menziona nazioni degne di disprezzo si riferisce a Samaria affermando per di più che «non è neppure un popolo» (Sir 50,25), e aggiunge che è «il popolo stolto che abita a Sichem» (v. 26).
83. Questo spiega perché una donna samaritana, quando Gesù le chiese da bere, rispose enfaticamente: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (Gv 4,9). Quelli che cercavano accuse che potessero screditare Gesù, la cosa più offensiva che trovarono fu di dirgli «indemoniato» e «samaritano» (Gv 8,48). Pertanto, questo incontro misericordioso tra un samaritano e un giudeo è una potente provocazione, che smentisce ogni manipolazione ideologica, affinché allarghiamo la nostra cerchia, dando alla nostra capacità di amare una dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini.
L’appello del forestiero
84. Infine, ricordo che in un altro passo del Vangelo Gesù dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Gesù poteva dire queste parole perché aveva un cuore aperto che faceva propri i drammi degli altri. San Paolo esortava: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). Quando il cuore assume tale atteggiamento, è capace di identificarsi con l’altro senza badare a dove è nato o da dove viene. Entrando in questa dinamica, in definitiva sperimenta che gli altri sono “sua stessa carne” (cfr Is 58,7).
85. Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45). In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro, perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che «gli conferisce con ciò una dignità infinita».[61] A ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale. E se andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune. La teologia continua ad arricchirsi grazie alla riflessione su questa grande verità.
86. A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti.
CAPITOLO TERZO
PENSARE E GENERARE UN MONDO APERTO
87. Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé».[62] E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: «Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro».[63] Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte».[64]
Al di là
88. Dall’intimo di ogni cuore, l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa verso l’altro.[65] Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi «una specie di legge di “estasi”: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere».[66] Perciò «in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso».[67]
89. D’altra parte, non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni: non solo quello attuale ma anche quello che mi precede e che è andato configurandomi nel corso della mia vita. La mia relazione con una persona che stimo non può ignorare che quella persona non vive solo per la sua relazione con me, né io vivo soltanto rapportandomi con lei. La nostra relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono. Il più nobile senso sociale oggi facilmente rimane annullato dietro intimismi egoistici con l’apparenza di relazioni intense. Invece, l’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano cuori che si lasciano completare. Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione.
90. Non è un caso che molte piccole popolazioni sopravvissute in zone desertiche abbiano sviluppato una generosa capacità di accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio, dando così un segno esemplare del sacro dovere dell’ospitalità. Lo hanno vissuto anche le comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola di San Benedetto. Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati «con tutto il riguardo e la premura possibili».[68] L’ospitalità è un modo concreto di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo. Quelle persone riconoscevano che tutti i valori che potevano coltivare dovevano essere accompagnati da questa capacità di trascendersi in un’apertura agli altri.
Il valore unico dell’amore
91. Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti delle varie virtù morali, bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione verso altre persone. Tale dinamismo è la carità che Dio infonde. Altrimenti, avremo forse solo un’apparenza di virtù, e queste saranno incapaci di costruire la vita in comune. Perciò San Tommaso d’Aquino – citando Sant’Agostino – diceva che la temperanza di una persona avara non è neppure virtuosa.[69] San Bonaventura, con altre parole, spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti «come Dio li intende».[70]
92. La statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore, che in ultima analisi è «il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana».[71] Tuttavia, ci sono credenti che pensano che la loro grandezza consista nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della verità, o in grandi dimostrazioni di forza. Tutti noi credenti dobbiamo riconoscere questo: al primo posto c’è l’amore, ciò che mai dev’essere messo a rischio è l’amore, il pericolo più grande è non amare (cfr 1 Cor 13,1-13).
93. Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, San Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro «considerandolo come un’unica cosa con sé stesso».[72] L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento, che in definitiva è quello che sta dietro la parola “carità”: l’essere amato è per me “caro”, vale a dire che lo considero di grande valore.[73] E «dall’amore per cui a uno è gradita una data persona derivano le gratificazioni verso di essa».[74]
94. L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti.
La progressiva apertura dell’amore
95. L’amore, infine, ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
96. Questo bisogno di andare oltre i propri limiti vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Di fatto, «il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[75]
Società aperte che integrano tutti
97. Ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me. D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente, abbandonato o ignorato dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato.
98. Voglio ricordare quegli “esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società.[76] Tante persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare». Ci sono ancora molte cose «che [impediscono] loro una cittadinanza piena». L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro «partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre più a formare coscienze capaci di riconoscere ognuno come persona unica e irripetibile». Ugualmente penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite a volte come un peso». Tuttavia, tutti possono dare «un singolare apporto al bene comune attraverso la propria originale biografia». Mi permetto di insistere: bisogna «avere il coraggio di dare voce a quanti sono discriminati per la condizione di disabilità, perché purtroppo in alcune Nazioni, ancora oggi, si stenta a riconoscerli come persone di pari dignità».[77]
Comprensioni inadeguate di un amore universale
99. L’amore che si estende al di là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni città e in ogni Paese. Quando è genuina, questa amicizia sociale all’interno di una società è condizione di possibilità di una vera apertura universale. Non si tratta del falso universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente perché non sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci sia spazio per tutti.
100. Neppure sto proponendo un universalismo autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare. C’è un modello di globalizzazione che «mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. […] Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo».[78] Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!».[79]
Andare oltre un mondo di soci
101. Riprendiamo ora la parabola del buon samaritano, che ha ancora molto da proporci. C’era un uomo ferito sulla strada. I personaggi che passavano accanto a lui non si concentravano sulla chiamata interiore a farsi vicini, ma sulla loro funzione, sulla posizione sociale che occupavano, su una professione di prestigio nella società. Si sentivano importanti per la società di quel tempo e ciò che premeva loro era il ruolo che dovevano svolgere. L’uomo ferito e abbandonato lungo la strada era un disturbo per questo progetto, un’interruzione, e da parte sua era uno che non rivestiva alcuna funzione. Era un “nessuno”, non apparteneva a un gruppo degno di considerazione, non aveva alcun ruolo nella costruzione della storia. Nel frattempo, il samaritano generoso resisteva a queste classificazioni chiuse, anche se lui stesso restava fuori da tutte queste categorie ed era semplicemente un estraneo senza un proprio posto nella società. Così, libero da ogni titolo e struttura, è stato capace di interrompere il suo viaggio, di cambiare i suoi programmi, di essere disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo ferito che aveva bisogno di lui.
102. Quale reazione potrebbe suscitare oggi questa narrazione, in un mondo dove compaiono continuamente, e crescono, gruppi sociali che si aggrappano a un’identità che li separa dagli altri? Come può commuovere quelli che tendono a organizzarsi in modo tale da impedire ogni presenza estranea che possa turbare questa identità e questa organizzazione autodifensiva e autoreferenziale? In questo schema rimane esclusa la possibilità di farsi prossimo, ed è possibile essere prossimo solo di chi permetta di consolidare i vantaggi personali. Così la parola “prossimo” perde ogni significato, e acquista senso solamente la parola “socio”, colui che è associato per determinati interessi.[80]
Libertà, uguaglianza e fraternità
103. La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore.
104. Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Coloro che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. Che senso può avere in questo schema la persona che non appartiene alla cerchia dei soci e arriva sognando una vita migliore per sé e per la sua famiglia?
105. L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune.
Amore universale che promuove le persone
106. C’è un riconoscimento basilare, essenziale da compiere per camminare verso l’amicizia sociale e la fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto, bisogna dire con chiarezza e fermezza che «il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità».[81] Questo è un principio elementare della vita sociale, che viene abitualmente e in vari modi ignorato da quanti vedono che non conviene alla loro visione del mondo o non serve ai loro fini.
107. Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità.
108. Vi sono società che accolgono questo principio parzialmente. Accettano che ci siano opportunità per tutti, però sostengono che, posto questo, tutto dipende da ciascuno. Secondo tale prospettiva parziale non avrebbe senso «investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».[82] Investire a favore delle persone fragili può non essere redditizio, può comportare minore efficienza. Esige uno Stato presente e attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici, perché veramente si orientano prima di tutto alle persone e al bene comune.
109. Alcuni nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno di uno Stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica.
110. Il fatto è che «la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio».[83] Parole come libertà, democrazia o fraternità si svuotano di senso. Perché, in realtà, «finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».[84] Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante.
111. La persona umana, coi suoi diritti inalienabili, è naturalmente aperta ai legami. Nella sua stessa radice abita la chiamata a trascendere sé stessa nell’incontro con gli altri. Per questo «occorre prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici –, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (monás), sempre più insensibile […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze».[85]
Promuovere il bene morale
112. Non possiamo tralasciare di dire che il desiderio e la ricerca del bene degli altri e di tutta l’umanità implicano anche di adoperarsi per una maturazione delle persone e delle società nei diversi valori morali che conducono ad uno sviluppo umano integrale. Nel Nuovo Testamento si menziona un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22) definito con il termine greco agathosyne. Indica l’attaccamento al bene, la ricerca del bene. Più ancora, è procurare ciò che vale di più, il meglio per gli altri: la loro maturazione, la loro crescita in una vita sana, l’esercizio dei valori e non solo il benessere materiale. C’è un’espressione latina simile: bene-volentia, cioè l’atteggiamento di volere il bene dell’altro. È un forte desiderio del bene, un’inclinazione verso tutto ciò che è buono ed eccellente, che ci spinge a colmare la vita degli altri di cose belle, sublimi, edificanti.
113. In questa linea, torno a rilevare con dolore che «già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi».[86] Volgiamoci a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta l’umanità, e così cammineremo insieme verso una crescita genuina e integrale. Ogni società ha bisogno di assicurare la trasmissione dei valori, perché se questo non succede si trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle sue varie forme, l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni trascendenza e trincerata negli interessi individuali.
Il valore della solidarietà
114. Desidero mettere in risalto la solidarietà, che «come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo. Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate a una missione educativa primaria e imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli. Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. […] Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso».[87]
115. In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità[88] che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune. La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri. Il servizio è «in gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo». In questo impegno ognuno è capace di «mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. […] Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone».[89]
116. Gli ultimi in generale «praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari».[90]
117. Quando parliamo di avere cura della casa comune che è il pianeta, ci appelliamo a quel minimo di coscienza universale e di preoccupazione per la cura reciproca che ancora può rimanere nelle persone. Infatti, se qualcuno possiede acqua in avanzo, e tuttavia la conserva pensando all’umanità, è perché ha raggiunto un livello morale che gli permette di andare oltre sé stesso e il proprio gruppo di appartenenza. Ciò è meravigliosamente umano! Questo stesso atteggiamento è quello che si richiede per riconoscere i diritti di ogni essere umano, benché sia nato al di là delle proprie frontiere.
Riproporre la funzione sociale della proprietà
118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.
119. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati.[91] Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro».[92] Come pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene».[93]
120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno».[94] In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».[95] Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale»,[96] è un diritto naturale, originario e prioritario.[97] Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI.[98] Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.
Diritti senza frontiere
121. Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.
122. Lo sviluppo non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli».[99] Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti».[100]
123. L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti».[101] Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo,[102] e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.[103]
Diritti dei popoli
124. La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune die beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».[104]
125. Ciò inoltre presuppone un altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi. Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia Nazione è corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni. Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di consumo.
126. Parliamo di una nuova rete nelle relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli gruppi. Ricordiamo che «l’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali».[105] E la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali, ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli.[106] Quanto stiamo affermando implica che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso»,[107] che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro crescita.
127. Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana».[108]
CAPITOLO QUARTO
UN CUORE APERTO AL MONDO INTERO
128. L’affermazione che come esseri umani siamo tutti fratelli e sorelle, se non è solo un’astrazione ma prende carne e diventa concreta, ci pone una serie di sfide che ci smuovono, ci obbligano ad assumere nuove prospettive e a sviluppare nuove risposte.
Il limite delle frontiere
129. Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse.[109] Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, «non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana».[110]
130. Ciò implica alcune risposte indispensabili, soprattutto nei confronti di coloro che fuggono da gravi crisi umanitarie. Per esempio: incrementare e semplificare la concessione di visti; adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione.[111]
131. Per quanti sono arrivati già da tempo e sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il concetto di “cittadinanza”, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli».[112]
132. Al di là delle diverse azioni indispensabili, gli Stati non possono sviluppare per conto proprio soluzioni adeguate «poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale». Pertanto «le risposte potranno essere frutto solo di un lavoro comune»,[113] dando vita ad una legislazione (governance) globale per le migrazioni. In ogni modo occorre «stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate».[114]
I doni reciproci
133. L’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono, perché «quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti».[115] Perciò «chiedo in particolare ai giovani di non cadere nelle reti di coloro che vogliono metterli contro altri giovani che arrivano nei loro Paesi, descrivendoli come soggetti pericolosi e come se non avessero la stessa inalienabile dignità di ogni essere umano».[116]
134. D’altra parte, quando si accoglie di cuore la persona diversa, le si permette di continuare ad essere sé stessa, mentre le si dà la possibilità di un nuovo sviluppo. Le varie culture, che hanno prodotto la loro ricchezza nel corso dei secoli, devono essere preservate perché il mondo non si impoverisca. E questo senza trascurare di stimolarle a lasciar emergere da sé stesse qualcosa di nuovo nell’incontro con altre realtà. Non va ignorato il rischio di finire vittime di una sclerosi culturale. Perciò «abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui».[117]
135. Riprendo degli esempi che ho menzionato tempo fa: la cultura dei latini è «un fermento di valori e possibilità che può fare tanto bene agli Stati Uniti […]. Una forte immigrazione alla fine segna sempre e trasforma la cultura di un luogo. […] In Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere».[118]
136. Allargando lo sguardo, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb abbiamo ricordato che «il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura».[119]
Il fecondo interscambio
137. L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti. Un Paese che progredisce sulla base del proprio originale substrato culturale è un tesoro per tutta l’umanità. Abbiamo bisogno di far crescere la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva. La povertà, il degrado, le sofferenze di una zona della terra sono un tacito terreno di coltura di problemi che alla fine toccheranno tutto il pianeta. Se ci preoccupa l’estinzione di alcune specie, dovrebbe assillarci il pensiero che dovunque ci sono persone e popoli che non sviluppano il loro potenziale e la loro bellezza a causa della povertà o di altri limiti strutturali. Perché questo finisce per impoverirci tutti.
138. Se ciò è stato sempre certo, oggi lo è più che mai a motivo della realtà di un mondo così interconnesso per la globalizzazione. Abbiamo bisogno che un ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico «incrementi e orienti la collaborazione internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli».[120] Questo alla fine andrà a vantaggio di tutto il pianeta, perché «l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri» implica «creazione di ricchezza per tutti».[121] Dal punto di vista dello sviluppo integrale, questo presuppone che si conceda «anche alle Nazioni più povere una voce efficace nelle decisioni comuni»[122] e che ci si adoperi per «incentivare l’accesso al mercato internazionale dei Paesi segnati da povertà e sottosviluppo».[123]
Gratuità che accoglie
139. Tuttavia, non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono Paesi che pretendono di accogliere solo gli scienziati e gli investitori.
140. Chi non vive la gratuità fraterna fa della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta persino quelli che non sono fedeli, e «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Per questo Gesù raccomanda: «Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto» (Mt 6,3-4). Abbiamo ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per essa. Dunque tutti possiamo dare senza aspettare qualcosa, fare il bene senza pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. È quello che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
141. La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici. I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti. L’immigrato è visto come un usurpatore che non offre nulla. Così, si arriva a pensare ingenuamente che i poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi benefattori. Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro.
Locale e universale
142. Va ricordato che «tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini».[124] Bisogna guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa.
Il sapore locale
143. La soluzione non è un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti.
144. Inoltre, questo è un presupposto degli interscambi sani e arricchenti. L’esperienza di vivere in un certo luogo e in una certa cultura è la base che rende capaci di cogliere aspetti della realtà, che quanti non hanno tale esperienza non sono in grado di cogliere tanto facilmente. L’universale non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della torre di Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria diversità. Al contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le nazioni (cfr Gen 11,1-9).
145. C’è una falsa apertura all’universale, che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto verso il proprio popolo. In ogni caso, «bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. […] Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili»[125], è il poliedro, dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[126]
L’orizzonte universale
146. Ci sono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli. Tale localismo si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze, incapace di ammirazione davanti alle molteplici possibilità e bellezze che il mondo intero offre e privo di una solidarietà autentica e generosa. Così, la vita locale non è più veramente recettiva, non si lascia più completare dall’altro; pertanto, si limita nelle proprie possibilità di sviluppo, diventa statica e si ammala. Perché, in realtà, ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così che «una cultura senza valori universali non è una vera cultura».[127]
147. Riscontriamo che una persona, quanto minore ampiezza ha nella mente e nel cuore, tanto meno potrà interpretare la realtà vicina in cui è immersa. Senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia” con le esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti.[128]
148. In realtà, una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta alimentata. Perciò ho esortato i popoli originari a custodire le loro radici e le loro culture ancestrali, ma ho voluto precisare che non era «mia intenzione proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si sottragga a qualsiasi forma di meticciato», dal momento che «la propria identità culturale si approfondisce e si arricchisce nel dialogo con realtà differenti e il modo autentico di conservarla non è un isolamento che impoverisce».[129] Il mondo cresce e si riempie di nuova bellezza grazie a successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni imposizione culturale.
149. Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé.
150. Questo approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena. La consapevolezza del limite o della parzialità, lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la quale sognare ed elaborare un progetto comune. Perché «l’uomo è l’essere-limite che non ha limite».[130]
Dalla propria regione
151. Grazie all’interscambio regionale, a partire dal quale i Paesi più deboli si aprono al mondo intero, è possibile che l’universalità non dissolva le particolarità. Un’adeguata e autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino, in una famiglia di nazioni. L’integrazione culturale, economica e politica con i popoli circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo educativo che promuova il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio indispensabile per ottenere una sana integrazione universale.
152. In alcuni quartieri popolari si vive ancora lo spirito del “vicinato”, dove ognuno sente spontaneamente il dovere di accompagnare e aiutare il vicino. In questi luoghi che conservano tali valori comunitari, si vivono i rapporti di prossimità con tratti di gratuità, solidarietà e reciprocità, a partire dal senso di un “noi” di quartiere.[131] Sarebbe auspicabile che ciò si potesse vivere anche tra Paesi vicini, con la capacità di costruire una vicinanza cordiale tra i loro popoli. Ma le visioni individualistiche si traducono nelle relazioni tra Paesi. Il rischio di vivere proteggendoci gli uni dagli altri, vedendo gli altri come concorrenti o nemici pericolosi, si trasferisce al rapporto con i popoli della regione. Forse siamo stati educati in questa paura e in questa diffidenza.
153. Ci sono Paesi potenti e grandi imprese che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun Paese separatamente. Al contrario, per i Paesi piccoli o poveri si apre la possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze. Oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione.
CAPITOLO QUINTO
LA MIGLIORE POLITICA
154. Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso.
Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.
Popolare o populista
156. Negli ultimi anni l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera esagerata.
157. La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.
158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune».[132]
159. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità.
160. I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.
161. Un’altra espressione degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il proporre un populismo irresponsabile».[133] Da una parte, il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]
162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.
Valori e limiti delle visioni liberali
163. La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile.[138]
164. La carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica».[139]
165. La vera carità è capace di includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti.
166. Tutto ciò potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo potere. Perciò, la mia critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.
167. L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici. Ci sono visioni liberali che ignorano questo fattore della fragilità umana e immaginano un mondo che risponde a un determinato ordine capace di per sé stesso di assicurare il futuro e la soluzione di tutti i problemi.
168. Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale»,[140] perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».[141] La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno».[142]
169. In certe visioni economicistiche chiuse e monocromatiche, sembra che non trovino posto, per esempio, i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti. In realtà, essi danno vita a varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali «che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune»; al tempo stesso, è bene far sì «che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino».[143] Questo, però, senza tradire il loro stile caratteristico, perché essi sono «seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia».[144] In questo senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli».[145] Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro «la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».[146]
Il potere internazionale
170. Mi permetto di ripetere che «la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».[147] Anzi, pare che le effettive strategie sviluppatesi successivamente nel mondo siano state orientate a maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni.
171. Vorrei insistere sul fatto che «dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere – politico, economico, militare, tecnologico e così via – tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere».[148]
172. Il secolo XXI «assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare».[149] Quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto,[150] non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali.
173. In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».[151] Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, «quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza».[152] Ma «il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale».[153] Occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.
174. Ci vogliono coraggio e generosità per stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e assicurare l’adempimento in tutto il mondo di alcune norme essenziali. Perché ciò sia veramente utile, si deve sostenere «l’esigenza di tenere fede agli impegni sottoscritti (pacta sunt servanda)»,[154] in modo da evitare «la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto».[155] Ciò richiede di potenziare «gli strumenti normativi per la soluzione pacifica delle controversie […] in modo da rafforzarne la portata e l’obbligatorietà».[156] Tra tali strumenti normativi vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati, perché garantiscono meglio degli accordi bilaterali la cura di un bene comune realmente universale e la tutela degli Stati più deboli.
175. Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi. Così acquista un’espressione concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la partecipazione e l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, le quali integrano in modo complementare l’azione dello Stato. Molte volte esse portano avanti sforzi lodevoli pensando al bene comune e alcuni dei loro membri arrivano a compiere gesti davvero eroici, che mostrano di quanta bellezza è ancora capace la nostra umanità.
Una carità sociale e politica
176. Per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?[157]
La politica di cui c’è bisogno
177. Mi permetto di ribadire che «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia».[158] Benché si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale».[159] Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi».[160] Penso a «una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose».[161] Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato.
178. Davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato, ricordo che «la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione»[162] e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura. Pensare a quelli che verranno non serve ai fini elettorali, ma è ciò che esige una giustizia autentica, perché, come hanno insegnato i Vescovi del Portogallo, la terra «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva».[163]
179. La società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può «aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo».[164]
L’amore politico
180. Riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel «campo della più vasta carità, della carità politica».[165] Si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale.[166] Ancora una volta invito a rivalutare la politica, che «è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune».[167]
181. Tutti gli impegni che derivano dalla dottrina sociale della Chiesa «sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40)».[168] Ciò richiede di riconoscere che «l’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore».[169] Per questa ragione, l’amore si esprime non solo in relazioni intime e vicine, ma anche nelle «macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici».[170]
182. Questa carità politica presuppone di aver maturato un senso sociale che supera ogni mentalità individualistica: «La carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce».[171] Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona. Popolo e persona sono termini correlativi. Tuttavia, oggi si pretende di ridurre le persone a individui, facilmente dominabili da poteri che mirano a interessi illeciti. La buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per evitare i suoi effetti disgreganti.
Amore efficace
183. A partire dall’«amore sociale»[172] è possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale tutti possiamo sentirci chiamati. La carità, col suo dinamismo universale, può costruire un mondo nuovo,[173] perché non è un sentimento sterile, bensì il modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti. L’amore sociale è una «forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici».[174]
184. La carità è al cuore di ogni vita sociale sana e aperta. Tuttavia, oggi «ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali».[175] È molto di più che un sentimentalismo soggettivo, se essa si accompagna all’impegno per la verità, così da non essere facile «preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti».[176] Proprio il suo rapporto con la verità favorisce nella carità il suo universalismo e così la preserva dall’essere «relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni».[177] Altrimenti, sarà «esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività».[178] Senza la verità, l’emotività si vuota di contenuti relazionali e sociali. Perciò l’apertura alla verità protegge la carità da una falsa fede che resta «priva di respiro umano e universale».[179]
185. La carità ha bisogno della luce della verità che costantemente cerchiamo e «questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede»,[180] senza relativismi. Ciò implica anche lo sviluppo delle scienze e il loro apporto insostituibile al fine di trovare i percorsi concreti e più sicuri per raggiungere i risultati sperati. Infatti, quando è in gioco il bene degli altri, non bastano le buone intenzioni, ma si tratta di ottenere effettivamente ciò di cui essi e le loro nazioni hanno bisogno per realizzarsi.
L’attività dell’amore politico
186. C’è un cosiddetto amore “elicito”, vale a dire gli atti che procedono direttamente dalla virtù della carità, diretti a persone e a popoli. C’è poi un amore “imperato”: quegli atti della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali.[181] Ne consegue che è «un atto di carità altrettanto indispensabile l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria».[182] È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica.
I sacrifici dell’amore
187. Questa carità, cuore dello spirito della politica, è sempre un amore preferenziale per gli ultimi, che sta dietro ogni azione compiuta in loro favore.[183] Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo dell’autentico spirito della politica. A partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima. Per esempio, «non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività».[184] Quello che occorre è che ci siano diversi canali di espressione e di partecipazione sociale. L’educazione è al servizio di questo cammino, affinché ogni essere umano possa diventare artefice del proprio destino. Qui mostra il suo valore il principio di sussidiarietà, inseparabile dal principio di solidarietà.
188. Da ciò risulta l’urgenza di trovare una soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani fondamentali. I politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. […] Significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità».[185] Così certamente si dà vita a un’attività intensa, perché «tutto dev’essere fatto per tutelare la condizione e la dignità della persona umana».[186] Il politico è un realizzatore, è un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo ampio, realistico e pragmatico, anche al di là del proprio Paese. Le maggiori preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere quelle causate da una caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare un’effettiva soluzione al «fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».[187] Questo si fa sfruttando con intelligenza le grandi risorse dello sviluppo tecnologico.
189. Siamo ancora lontani da una globalizzazione dei diritti umani più essenziali. Perciò la politica mondiale non può tralasciare di porre tra i suoi obiettivi principali e irrinunciabili quello di eliminare effettivamente la fame. Infatti, «quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile».[188] Tante volte, mentre ci immergiamo in discussioni semantiche o ideologiche, lasciamo che ancora oggi ci siano fratelli e sorelle che muoiono di fame e di sete, senza un tetto o senza accesso alle cure per la loro salute. Insieme a questi bisogni elementari non soddisfatti, la tratta di persone è un’altra vergogna per l’umanità che la politica internazionale non dovrebbe continuare a tollerare, al di là dei discorsi e delle buone intenzioni. È il minimo indispensabile.
Amore che integra e raduna
190. La carità politica si esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo.
191. Mentre vediamo che ogni genere di intolleranza fondamentalista danneggia le relazioni tra persone, gruppi e popoli, impegniamoci a vivere e insegnare il valore del rispetto, l’amore capace di accogliere ogni differenza, la priorità della dignità di ogni essere umano rispetto a qualunque sua idea, sentimento, prassi e persino ai suoi peccati. Mentre nella società attuale proliferano i fanatismi, le logiche chiuse e la frammentazione sociale e culturale, un buon politico fa il primo passo perché risuonino le diverse voci. È vero che le differenze generano conflitti, ma l’uniformità genera asfissia e fa sì che ci fagocitiamo culturalmente. Non rassegniamoci a vivere chiusi in un frammento di realtà.
192. In tale contesto, desidero ricordare che, insieme con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, abbiamo chiesto «agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente».[189] E quando una determinata politica semina l’odio e la paura verso altre nazioni in nome del bene del proprio Paese, bisogna preoccuparsi, reagire in tempo e correggere immediatamente la rotta.
Più fecondità che risultati
193. Mentre porta avanti questa attività instancabile, ogni politico è pur sempre un essere umano. È chiamato a vivere l’amore nelle sue quotidiane relazioni interpersonali. È una persona, e ha bisogno di accorgersi che «il mondo moderno, con la sua stessa perfezione tecnica, tende a razionalizzare sempre di più la soddisfazione dei desideri umani, classificati e suddivisi tra diversi servizi. Sempre meno si chiama un uomo col suo nome proprio, sempre meno si tratterà come persona questo essere unico al mondo, che ha il suo cuore, le sue sofferenze, i suoi problemi, le sue gioie e la sua famiglia. Si conosceranno soltanto le sue malattie per curarle, la sua mancanza di denaro per fornirglielo, il suo bisogno di casa per dargli un alloggio, il suo desiderio di svago e di distrazioni per organizzarli». Però, «amare il più insignificante degli esseri umani come un fratello, come se al mondo non ci fosse altri che lui, non è perdere tempo».[190]
194. Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza. «Cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. […] La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti».[191] In mezzo all’attività politica, «i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli».[192]
195. Questo ci aiuta a riconoscere che non sempre si tratta di ottenere grandi risultati, che a volte non sono possibili. Nell’attività politica bisogna ricordare che «al di là di qualsiasi apparenza, ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!».[193] I grandi obiettivi sognati nelle strategie si raggiungono parzialmente. Al di là di questo, chi ama e ha smesso di intendere la politica come una mera ricerca di potere, «ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore, non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri, non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita».[194]
196. D’altra parte, è grande nobiltà esser capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce all’amore la speranza, la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente, malgrado tutto. Perciò, «la vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali».[195]
197. Vista in questo modo, la politica è più nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico. Tutto ciò non semina altro che divisione, inimicizia e uno scetticismo desolante incapace di appellarsi a un progetto comune. Pensando al futuro, in certi giorni le domande devono essere: “A che scopo? Verso dove sto puntando realmente?”. Perché, dopo alcuni anni, riflettendo sul proprio passato, la domanda non sarà: “Quanti mi hanno approvato, quanti mi hanno votato, quanti hanno avuto un’immagine positiva di me?”. Le domande, forse dolorose, saranno: “Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?”.
CAPITOLO SESTO
DIALOGO E AMICIZIA SOCIALE
198. Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto.
Il dialogo sociale verso una nuova cultura
199. Alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma «tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media».[196]
200. Spesso si confonde il dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado sono opportunistici e contraddittori.
201. La risonante diffusione di fatti e richiami nei media, in realtà chiude spesso le possibilità del dialogo, perché permette che ciascuno, con la scusa degli errori altrui, mantenga intatti e senza sfumature le idee, gli interessi e le scelte propri. Predomina l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui si cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre. Il peggio è che questo linguaggio, consueto nel contesto mediatico di una campagna politica, si è talmente generalizzato che lo usano quotidianamente tutti. Il dibattito molte volte è manipolato da determinati interessi che hanno maggior potere e cercano in maniera disonesta di piegare l’opinione pubblica a loro favore. Non mi riferisco soltanto al governo di turno, perché tale potere manipolatore può essere economico, politico, mediatico, religioso o di qualsiasi genere. A volte lo si giustifica o lo si scusa quando la sua dinamica corrisponde ai propri interessi economici o ideologici, ma prima o poi si ritorce contro questi stessi interessi.
202. La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società.
Costruire insieme
203. L’autentico dialogo sociale presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. È vero che quando una persona o un gruppo è coerente con quello che pensa, aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un pensiero, ciò in un modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma questo avviene effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, «in un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme».[197] La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio. Impedisce che i vari settori si posizionino comodi e autosufficienti nel loro modo di vedere le cose e nei loro interessi limitati. Pensiamo che «le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità».[198]
204. Oggi esiste la convinzione che, oltre agli sviluppi scientifici specializzati, occorre la comunicazione tra discipline, dal momento che la realtà è una, benché possa essere accostata da diverse prospettive e con differenti metodologie. Non va trascurato il rischio che un progresso scientifico venga considerato l’unico approccio possibile per comprendere un aspetto della vita, della società e del mondo. Invece, un ricercatore che avanza fruttuosamente nella sua analisi ed è anche disposto a riconoscere altre dimensioni della realtà che indaga, grazie al lavoro di altre scienze e altri saperi si apre a conoscere la realtà in maniera più integra e piena.
205. In questo mondo globalizzato «i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio».[199] È però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione ci orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla vicinanza con gli ultimi, all’impegno di costruire il bene comune. Nello stesso tempo, come hanno indicato i Vescovi dell’Australia, «non possiamo accettare un mondo digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente».[200]
Il fondamento dei consensi
206. Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento. Se in definitiva «non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, […] non possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno. […] Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare».[201]
207. È possibile prestare attenzione alla verità, cercare la verità che risponde alla nostra realtà più profonda? Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile? Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo. Allora non ci si asterrà dall’uccidere qualcuno solo per evitare il disprezzo sociale e il peso della legge, bensì per convinzione. È una verità irrinunciabile che riconosciamo con la ragione e accettiamo con la coscienza. Una società è nobile e rispettabile anche perché coltiva la ricerca della verità e per il suo attaccamento alle verità fondamentali.
208. Occorre esercitarsi a smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento della verità negli ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano.
209. Diversamente, non potrebbe forse succedere che i diritti umani fondamentali, oggi considerati insormontabili, vengano negati dai potenti di turno, dopo aver ottenuto il “consenso” di una popolazione addormentata e impaurita? E nemmeno sarebbe sufficiente un mero consenso tra i vari popoli, ugualmente manipolabile. Già abbiamo in abbondanza prove di tutto il bene che siamo capaci di compiere, però, al tempo stesso, dobbiamo riconoscere la capacità di distruzione che c’è in noi. L’individualismo indifferente e spietato in cui siamo caduti, non è anche il risultato della pigrizia nel ricercare i valori più alti, che vadano al di là dei bisogni momentanei? Al relativismo si somma il rischio che il potente o il più abile riesca a imporre una presunta verità. Invece, «di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo “miserabile” sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».[202]
210. Quello che oggi ci accade, trascinandoci in una logica perversa e vuota, è che si verifica un’assimilazione dell’etica e della politica alla fisica. Non esistono il bene e il male in sé, ma solamente un calcolo di vantaggi e svantaggi. Lo spostamento della ragione morale ha per conseguenza che il diritto non può riferirsi a una concezione fondamentale di giustizia, ma piuttosto diventa uno specchio delle idee dominanti. Entriamo qui in una degenerazione: un andare “livellando verso il basso” mediante un consenso superficiale e compromissorio. Così, in definitiva, la logica della forza trionfa.
Il consenso e la verità
211. In una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale. Parliamo di un dialogo che esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti razionali, da varietà di prospettive, da apporti di diversi saperi e punti di vista, e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute. Accettare che ci sono alcuni valori permanenti, benché non sia sempre facile riconoscerli, conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che tali valori di base vanno al di là di ogni consenso, li riconosciamo come valori che trascendono i nostri contesti e mai negoziabili. Potrà crescere la nostra comprensione del loro significato e della loro importanza – e in questo senso il consenso è una realtà dinamica – ma in sé stessi sono apprezzati come stabili per il loro significato intrinseco.
212. Se una certa cosa rimane sempre conveniente per il buon funzionamento della società, non è forse perché dietro ad essa c’è una verità perenne, che l’intelligenza può cogliere? Nella realtà stessa dell’essere umano e della società, nella loro natura intima, vi è una serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro sopravvivenza. Da lì derivano determinate esigenze che si possono scoprire grazie al dialogo, anche se non sono costruite in senso stretto dal consenso. Il fatto che certe norme siano indispensabili per la vita sociale stessa è un indizio esterno di come esse siano qualcosa di intrinsecamente buono. Di conseguenza, non è necessario contrapporre la convenienza sociale, il consenso, e la realtà di una verità obiettiva. Tutt’e tre possono unirsi armoniosamente quando, attraverso il dialogo, le persone hanno il coraggio di andare fino in fondo a una questione.
213. Se bisogna rispettare in ogni situazione la dignità degli altri, è perché noi non inventiamo o supponiamo tale dignità, ma perché c’è effettivamente in essi un valore superiore rispetto alle cose materiali e alle circostanze, che esige siano trattati in un altro modo. Che ogni essere umano possiede una dignità inalienabile è una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale. Perciò l’essere umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione o a non agire di conseguenza. L’intelligenza può dunque scrutare nella realtà delle cose, attraverso la riflessione, l’esperienza e il dialogo, per riconoscere in tale realtà che la trascende la base di certe esigenze morali universali.
214. Agli agnostici, questo fondamento potrà sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove catastrofi. Per i credenti, la natura umana, fonte di principi etici, è stata creata da Dio, il quale, in ultima istanza, conferisce un fondamento solido a tali principi.[203] Ciò non stabilisce un fissismo etico né apre la strada all’imposizione di alcun sistema morale, dal momento che i principi morali fondamentali e universalmente validi possono dar luogo a diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno spazio per il dialogo.
Una nuova cultura
215. «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita».[204] Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte».[205] Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti.
L’incontro fatto cultura
216. La parola “cultura” indica qualcosa che è penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel suo stile di vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di vivere che caratterizza quel gruppo umano. Dunque, parlare di “cultura dell’incontro” significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di vita. Il soggetto di tale cultura è il popolo, non un settore della società che mira a tenere in pace il resto con mezzi professionali e mediatici.
217. La pace sociale è laboriosa, artigianale. Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze con un po’ di astuzia e di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il frutto di una cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà diverse è molto più difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida. Ciò non si ottiene mettendo insieme solo i puri, perché «persino le persone che possono essere criticate per i loro errori hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto».[206] E nemmeno consiste in una pace che nasce mettendo a tacere le rivendicazioni sociali o evitando che facciano troppo rumore, perché non è «un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice».[207] Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!
Il gusto di riconoscere l’altro
218. Questo implica la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere diverso. A partire da tale riconoscimento fattosi cultura, si rende possibile dar vita ad un patto sociale. Senza questo riconoscimento emergono modi sottili di far sì che l’altro perda ogni significato, che diventi irrilevante, che non gli si riconosca alcun valore nella società. Dietro al rifiuto di certe forme visibili di violenza, spesso si nasconde un’altra violenza più subdola: quella di coloro che disprezzano il diverso, soprattutto quando le sue rivendicazioni danneggiano in qualche modo i loro interessi.
219. Quando una parte della società pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri non esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza e i diritti degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza, molte volte inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non sono effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un incontro tra coloro che detengono varie forme di potere economico, politico o accademico. Un incontro sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano con una veste culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi identificati. Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli originari non sono contro il progresso, anche se hanno un’idea di progresso diversa, molte volte più umanistica di quella della cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una cultura orientata al vantaggio di quanti hanno potere, di quanti hanno bisogno di creare una specie di paradiso sulla terra. L’intolleranza e il disprezzo nei confronti delle culture popolari indigene è una vera forma di violenza, propria degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando gli altri. Ma nessun cambiamento autentico, profondo e stabile è possibile se non si realizza a partire dalle diverse culture, principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone che si rinunci a intendere l’identità di un luogo in modo monolitico, ed esige che si rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di integrazione sociale.
221. Questo patto richiede anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune. Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano».[208]
224. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti.
CAPITOLO SETTIMO
PERCORSI DI UN NUOVO INCONTRO
225. In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia.
Ricominciare dalla verità
226. Nuovo incontro non significa tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato. Inoltre, non c’è più spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti. La realtà è che «il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta».[209] Come hanno affermato i Vescovi del Congo a proposito di un conflitto che si ripete, «gli accordi di pace sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano, includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo».[210]
227. In effetti, «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi. […] Ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone. […] La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile».[211]
L’architettura e l’artigianato della pace
228. Il percorso verso la pace non richiede di omogeneizzare la società, ma sicuramente ci permette di lavorare insieme. Può unire molti nel perseguire ricerche congiunte in cui tutti traggono profitto. Di fronte a un determinato obiettivo condiviso, si potranno offrire diverse proposte tecniche, varie esperienze, e lavorare per il bene comune. Occorre cercare di identificare bene i problemi che una società attraversa per accettare che esistano diversi modi di guardare le difficoltà e di risolverle. Il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver agito male. Infatti, «l’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé»,[212] promessa che lascia sempre uno spiraglio di speranza.
229. Come hanno insegnato i Vescovi del Sudafrica, la vera riconciliazione si raggiunge in maniera proattiva, «formando una nuova società basata sul servizio agli altri, più che sul desiderio di dominare; una società basata sul condividere con altri ciò che si possiede, più che sulla lotta egoistica di ciascuno per la maggior ricchezza possibile; una società in cui il valore di stare insieme come esseri umani è senz’altro più importante di qualsiasi gruppo minore, sia esso la famiglia, la nazione, l’etnia o la cultura».[213] I Vescovi della Corea del Sud hanno segnalato che un’autentica pace «si può ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco».[214]
230. L’impegno arduo per superare ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza. Infatti, «la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?».[215]
231. Molte volte c’è un grande bisogno di negoziare e così sviluppare percorsi concreti per la pace. Tuttavia, i processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana. Le grandi trasformazioni non si costruiscono alla scrivania o nello studio. Dunque, «ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione».[216] C’è una “architettura” della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un “artigianato” della pace che ci coinvolge tutti. A partire da diversi processi di pace che si sviluppano in vari luoghi del mondo, «abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. […] Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva».[217]
232. Non c’è un punto finale nella costruzione della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di «un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune. Che questo sforzo ci faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e ricerca di interessi solo particolari e a breve termine».[218] Le manifestazioni pubbliche violente, da una parte e dall’altra, non aiutano a trovare vie d’uscita. Soprattutto perché, come bene hanno osservato i Vescovi della Colombia, quando si incoraggiano «mobilitazioni cittadine, non sempre risultano chiari le loro origini e i loro obiettivi, ci sono alcune forme di manipolazione politica e si riscontrano appropriazioni a favore di interessi particolari».[219]
Soprattutto con gli ultimi
233. La promozione dell’amicizia sociale implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo di qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. La pace «non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione».[220]
234. Spesso gli ultimi della società sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste. Se talvolta i più poveri e gli scartati reagiscono con atteggiamenti che sembrano antisociali, è importante capire che in molti casi tali reazioni dipendono da una storia di disprezzo e di mancata inclusione sociale. Come hanno insegnato i Vescovi latinoamericani, «solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi, i loro legittimi aneliti e il loro specifico modo di vivere la fede. L’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i poveri».[221]
235. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. In effetti, «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità».[222] Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi.
Il valore e il significato del perdono
236. Alcuni preferiscono non parlare di riconciliazione, perché ritengono che il conflitto, la violenza e le fratture fanno parte del funzionamento normale di una società. Di fatto, in qualunque gruppo umano ci sono lotte di potere più o meno sottili tra vari settori. Altri sostengono che ammettere il perdono equivale a cedere il proprio spazio perché altri dominino la situazione. Perciò ritengono che sia meglio mantenere un gioco di potere che permetta di sostenere un equilibrio di forze tra i diversi gruppi. Altri credono che la riconciliazione sia una cosa da deboli, che non sono capaci di un dialogo fino in fondo e perciò scelgono di sfuggire ai problemi nascondendo le ingiustizie: incapaci di affrontare i problemi, preferiscono una pace apparente.
Il conflitto inevitabile
237. Il perdono e la riconciliazione sono temi di grande rilievo nel cristianesimo e, con varie modalità, in altre religioni. Il rischio sta nel non comprendere adeguatamente le convinzioni dei credenti e presentarle in modo tale che finiscano per alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure, dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza.
238. Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli stesso condannava apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26). D’altra parte, il Vangelo chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) e fa l’esempio del servo spietato, che era stato perdonato ma a sua volta non è stato capace di perdonare gli altri (cfr Mt 18,23-35).
239. Se leggiamo altri testi del Nuovo Testamento, possiamo notare che di fatto le prime comunità, immerse in un mondo pagano colmo di corruzione e di aberrazioni, vivevano un senso di pazienza, tolleranza, comprensione. Alcuni testi sono molto chiari al riguardo: si invita a riprendere gli avversari con dolcezza (cfr 2 Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati» (Tt 3,2-3). Il libro degli Atti degli Apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune autorità, “godevano il favore di tutto il popolo” (cfr 2,47; 4,21.33; 5,13).
240. Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono, sulla pace e sulla concordia sociale, ci imbattiamo in un’espressione di Cristo che ci sorprende: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10,34-36). È importante situarla nel contesto del capitolo in cui è inserita. Lì è chiaro che il tema di cui si tratta è quello della fedeltà alla propria scelta, senza vergogna, benché ciò procuri contrarietà, e anche se le persone care si oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non invitano a cercare conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto inevitabile, perché il rispetto umano non porti a venir meno alla fedeltà in ossequio a una presunta pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha affermato che la Chiesa «non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza».[223]
Le lotte legittime e il perdono
241. Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede.
242. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali».[224] Così non si guadagna nulla e alla lunga si perde tutto.
243. Certo, «non è un compito facile quello di superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene (cfr Rm 12,21) e coltivando quelle virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la pace».[225] In tal modo, «a chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta».[226] Occorre riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio».[227]
Il vero superamento
244. Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia».[228]
245. Più volte ho proposto «un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[229] Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita».[230]
La memoria
246. Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare.
247. La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa».[231] Nel ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai più!».[232]
248. Non vanno dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. Ancora una volta «faccio memoria qui di tutte le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di coloro che, essendo sopravvissuti a quei primi momenti, hanno sopportato nei propri corpi per molti anni le sofferenze più acute e, nelle loro menti, i germi della morte che hanno continuato a consumare la loro energia vitale. […] Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e fraterno».[233] E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci.
249. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere «la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione».[234] Ne hanno bisogno le vittime stesse – persone, gruppi sociali o nazioni – per non cedere alla logica che porta a giustificare la rappresaglia e ogni violenza in nome del grande male subito. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene.
Perdono senza dimenticanze
250. Il perdono non implica il dimenticare. Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato, relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che mai dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che per nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo perdonare. Il perdono libero e sincero è una grandezza che riflette l’immensità del perdono divino. Se il perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è incapace di chiedere perdono.
251. Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione. Decidono di non continuare a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere ancora una volta su loro stessi. Infatti, la vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione delle vittime. Ci sono crimini così orrendi e crudeli, che far soffrire chi li ha commessi non serve per sentire che si è riparato il delitto; e nemmeno basterebbe uccidere il criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili a ciò che ha potuto soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla.
252. Neppure stiamo parlando di impunità. Ma la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira. Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare.
253. Quando vi sono state ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle strutture e del potere dello Stato non sta allo stesso livello della violenza di gruppi particolari. In ogni caso, non si può pretendere che vengano ricordate solamente le sofferenze ingiuste di una sola delle parti. Come hanno insegnato i Vescovi della Croazia, «noi dobbiamo ad ogni vittima innocente il medesimo rispetto. Non vi possono essere differenze etniche, confessionali, nazionali o politiche».[235]
254. Chiedo a Dio «di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace».[236]
La guerra e la pena di morte
255. Ci sono due situazioni estreme che possono arrivare a presentarsi come soluzioni in circostanze particolarmente drammatiche, senza avvisare che sono false risposte, che non risolvono i problemi che pretendono di superare e che in definitiva non fanno che aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto della società nazionale e mondiale. Si tratta della guerra e della pena di morte.
L’ingiustizia della guerra
256. «L’inganno è nel cuore di chi trama il male, la gioia invece è di chi promuove la pace» (Pr 12,20). Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso «si nutre del pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo».[237] La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti.
257. Poiché si stanno creando nuovamente le condizioni per la proliferazione di guerre, ricordo che «la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.
A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale».[238] Voglio rilevare che i 75 anni delle Nazioni Unite e l’esperienza dei primi 20 anni di questo millennio mostrano che la piena applicazione delle norme internazionali è realmente efficace, e che il loro mancato adempimento è nocivo. La Carta delle Nazioni Unite, rispettata e applicata con trasparenza e sincerità, è un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e un veicolo di pace. Ma ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale.
258. È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale».[239] Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare».[240] La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene».[241] Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra![242]
259. È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale.
260. Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».[243] Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra.
261. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.
262. Neppure le norme saranno sufficienti, se si pensa che la soluzione ai problemi attuali consista nel dissuadere gli altri mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi nucleari, chimiche o biologiche. Infatti, «se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. […] Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. […] In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario. […] La crescente interdipendenza e la globalizzazione significano che qualunque risposta diamo alla minaccia delle armi nucleari, essa debba essere collettiva e concertata, basata sulla fiducia reciproca. Quest’ultima può essere costruita solo attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi velati o particolari».[244] E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale[245] per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa.
La pena di morte
263. C’è un altro modo di eliminare l’altro, non destinato ai Paesi ma alle persone. È la pena di morte. San Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale.[246] Non è possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile»[247] e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo.[248]
264. Nel Nuovo Testamento, mentre si chiede ai singoli di non farsi giustizia da sé stessi (cfr Rm 12,17.19), si riconosce la necessità che le autorità impongano pene a coloro che fanno il male (cfr Rm 13,4; 1 Pt 2,14). In effetti, «la vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata».[249] Ciò comporta che l’autorità pubblica legittima possa e debba «comminare pene proporzionate alla gravità dei delitti»[250] e che garantisca al potere giudiziario «l’indipendenza necessaria nell’ambito della legge».[251]
265. Fin dai primi secoli della Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale. Ad esempio, Lattanzio sosteneva che «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà un crimine uccidere un uomo».[252] Papa Nicola I esortava: «Sforzatevi di liberare dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli».[253] In occasione del giudizio contro alcuni omicidi che avevano assassinato dei sacerdoti, Sant’Agostino chiese al giudice di non togliere la vita agli assassini, e lo giustificava in questo modo: «Non che vogliamo con ciò impedire che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla loro insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o che, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile. Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento? […] Sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità; non sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi la volontà a curarne le ferite».[254]
266. Le paure e i rancori facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale. Oggi, «tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. […]
C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».[255] Ciò ha reso particolarmente rischiosa l’abitudine sempre più presente in alcuni Paesi di ricorrere a carcerazioni preventive, a reclusioni senza giudizio e specialmente alla pena di morte.
267. Desidero sottolineare che «è impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone». Particolare gravità rivestono le cosiddette esecuzioni extragiudiziarie o extralegali, che «sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionato della forza per far applicare la legge».[256]
268. «Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. […] L’ergastolo è una pena di morte nascosta».[257]
269. Ricordiamo che «neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante».[258] Il fermo rifiuto della pena di morte mostra fino a che punto è possibile riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al peggiore dei criminali, non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità di condividere con me questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.
270. I cristiani che dubitano e si sentono tentati di cedere a qualsiasi forma di violenza, li invito a ricordare l’annuncio del libro di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri» (2,4). Per noi questa profezia prende carne in Gesù Cristo, che di fronte a un discepolo eccitato dalla violenza disse con fermezza: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52). Era un’eco di quell’antico ammonimento: «Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso» (Gen 9,5-6). Questa reazione di Gesù, che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza dei secoli e giunge fino a oggi come un costante richiamo.
CAPITOLO OTTAVO
LE RELIGIONI AL SERVIZIO DELLA FRATERNITÀ NEL MONDO
271. Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza. Come hanno insegnato i Vescovi dell’India, «l’obiettivo del dialogo è stabilire amicizia, pace, armonia e condividere valori ed esperienze morali e spirituali in uno spirito di verità e amore».[259]
Il fondamento ultimo
272. Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi».[260] Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità».[261]
273. In questa prospettiva, desidero ricordare un testo memorabile: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. […] La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza».[262]
274. A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli. Crediamo che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali».[263]
275. Va riconosciuto come «tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti».[264] Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce soltanto i potenti e gli scienziati. Dev’esserci uno spazio per la riflessione che procede da uno sfondo religioso che raccoglie secoli di esperienza e di sapienza. «I testi religiosi classici possono offrire un significato destinato a tutte le epoche,posseggono una forza motivante», ma di fatto «vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi».[265]
276. Per queste ragioni, benché la Chiesa rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione all’ambito del privato. Al contrario, «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali»[266] che possano fecondare tutta la vita sociale. È vero che i ministri religiosi non devono fare politica partitica, propria dei laici, però nemmeno possono rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza[267] che implica una costante attenzione al bene comune e la preoccupazione per lo sviluppo umano integrale. La Chiesa «ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione» ma che si adopera per la «promozione dell’uomo e della fraternità universale».[268] Non aspira a competere per poteri terreni, bensì ad offrirsi come «una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare […] al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre».[269] E come Maria, la Madre di Gesù, «vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione».[270]
L’identità cristiana
277. La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle altre religioni, e «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini».[271] Tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna».[272] Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti».[273]
278. Chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra – questo significa “cattolica” –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale. Infatti, «tutto ciò ch’è umano ci riguarda. […] Dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro».[274] Per molti cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome Maria. Ella ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e la sua attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al «resto della sua discendenza» (Ap 12,17). Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia e la pace.
279. Come cristiani chiediamo che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza. C’è un diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità e della pace: è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni. Tale libertà manifesta che possiamo «trovare un buon accordo tra culture e religioni differenti; testimonia che le cose che abbiamo in comune sono così tante e importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio».[275]
280. Nello stesso tempo, chiediamo a Dio di rafforzare l’unità nella Chiesa, unità arricchita da diversità che si riconciliano per l’azione dello Spirito Santo. Infatti «siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13), dove ciascuno dà il suo apporto peculiare. Come diceva Sant’Agostino, «l’orecchio vede attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio».[276] È urgente inoltre continuare a dare testimonianza di un cammino di incontro tra le diverse confessioni cristiane. Non possiamo dimenticare il desiderio espresso da Gesù: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ascoltando il suo invito, riconosciamo con dolore che al processo di globalizzazione manca ancora il contributo profetico e spirituale dell’unità tra tutti i cristiani. Ciò nonostante, «pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità».[277]
Religione e violenza
281. Tra le religioni è possibile un cammino di pace. Il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché «Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore. E l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese!».[278]
282. Anche «i credenti hanno bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo».[279] Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni.
283. Il culto a Dio, sincero e umile, «porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti».[280] In realtà, «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Pertanto, «il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni».[281] Le convinzioni religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di «riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio».[282]
284. Talvolta la violenza fondamentalista viene scatenata in alcuni gruppi di qualsiasi religione dall’imprudenza dei loro leader. Tuttavia, «il comandamento della pace è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. […] Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo le vie del dialogo e non innalzando nuovi muri!».[283]
Appello
285. In quell’incontro fraterno, che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, «dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini […]. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente».[284] Perciò desidero riprendere qui l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità che abbiamo fatto insieme:
«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.
In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.
In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.
In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.
In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.
In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.
In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.
In nome di Dio e di tutto questo, […] [dichiariamo] di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».[285]
* * *
286. In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld.
287. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello,[286] e chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese».[287] Voleva essere, in definitiva, «il fratello universale».[288] Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen.
Preghiera al Creatore
Signore e Padre dell’umanità,
che hai creato tutti gli esseri umani con la stessa dignità,
infondi nei nostri cuori uno spirito fraterno.
Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Stimolaci a creare società più sane e un mondo più degno,
senza fame, senza povertà, senza violenza, senza guerre.
Il nostro cuore si apra
a tutti i popoli e le nazioni della terra,
per riconoscere il bene e la bellezza
che hai seminato in ciascuno di essi,
per stringere legami di unità, di progetti comuni,
di speranze condivise. Amen.
Preghiera cristiana ecumenica
Dio nostro, Trinità d’amore,
dalla potente comunione della tua intimità divina
effondi in mezzo a noi il fiume dell’amore fraterno.
Donaci l’amore che traspariva nei gesti di Gesù,
nella sua famiglia di Nazaret e nella prima comunità cristiana.
Concedi a noi cristiani di vivere il Vangelo
e di riconoscere Cristo in ogni essere umano,
per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati
e dei dimenticati di questo mondo
e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi.
Vieni, Spirito Santo! Mostraci la tua bellezza
riflessa in tutti i popoli della terra,
per scoprire che tutti sono importanti,
che tutti sono necessari, che sono volti differenti
della stessa umanità amata da Dio. Amen.
Dato ad Assisi, presso la tomba di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della Festa del Poverello, dell’anno 2020, ottavo del mio Pontificato
Francesco
[1] Ammonizioni, 6, 1: FF 155.
[2] Ibid., 25: FF 175.
[3] S. Francesco di Assisi, Regola non bollata, 16, 3.6: FF 42-43.
[4] Eloi Leclerc, O.F.M., Exilio y ternura, ed. Marova, Madrid 1987, 205.
[5] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[6] Discorso nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019, p. 9.
[7] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 996.
[8] Incontro con le Autorità, la società civile e il Corpo diplomatico, Santiago del Cile (16 gennaio 2018): AAS 110 (2018), 256.
[9] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[10] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 181.
[11] Card. Raúl Silva Henríquez, S.D.B., Omelia al Te Deum a Santiago del Cile (18 settembre 1974).
[12] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 57: AAS 107 (2015), 869.
[13] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016), 120.
[14] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13 gennaio 2014): AAS 106 (2014), 83-84.
[15] Cfr Discorso alla Fondazione “Centesimus annus pro Pontifice” (25 maggio 2013): Insegnamenti, I, 1 (2013), 238.
[16] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 14: AAS 59 (1967), 264.
[17] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 22: AAS 101 (2009), 657.
[18] Discorso alle Autorità, Tirana – Albania (21 settembre 2014): AAS 106 (2014), 773.
[19] Messaggio ai partecipanti alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni” (10 dicembre 2018): L’Osservatore Romano, 10-11 dicembre 2018, p. 8.
[20] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 212: AAS 105 (2013), 1108.
[21] Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2015 (8 dicembre 2014), 3-4: AAS 107 (2015), 69-71.
[22] Ibid., 5: AAS (107 (2015), 72.
[23] Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8 dicembre 2015), 2: AAS 108 (2016), 49.
[24] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[25] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 6.
[26] Discorso a professori e studenti del Collegio “San Carlo” di Milano (6 aprile 2019): L’Osservatore Romano, 8-9 aprile 2019, p. 6.
[27] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[28] Discorso al mondo della cultura, Cagliari – Italia (22 settembre 2013): L’Osservatore Romano, 23-24 settembre 2013, p. 7.
[29] Humana communitas. Lettera al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del XXV anniversario della sua istituzione (6 gennaio 2019), 2.6: L’Osservatore Romano, 16 gennaio 2019, pp. 6-7.
[30] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[31] Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo 2020, p. 10.
[32] Omelia nella S. Messa, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio 2019, p. 12.
[33] Cfr Aeneis, I, 462: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt».
[34] «Historia […] magistra vitae» (M.T. Cicerone, De Oratore, II, 36).
[35] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 204: AAS 107 (2015), 928.
[36] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 91.
[39] Benedetto XVI, Messaggio per la 99ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (12 ottobre 2012): AAS 104 (2012), 908.
[40] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 92.
[41] Cfr Messaggio per la 106ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2020 (13 maggio 2020): L’Osservatore Romano, 16 maggio 2020, p. 8.
[42] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016), 124.
[43] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13 gennaio 2014): AAS 106 (2014), 84.
[44] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016), 123.
[45] Messaggio per la 105ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (27 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 27-28 maggio 2019, p. 8.
[46] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 88.
[48] Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 115.
[49] Dal film Papa Francesco – Un uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[50] Discorso alle Autorità, alla società civile e al Corpo diplomatico, Tallin – Estonia (25 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 7.
[51] Cfr Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo, p. 10; Messaggio per la 4ª Giornata Mondiale dei Poveri (13 giugno 2020), 6: L’Osservatore Romano, 14 giugno 2020, p. 8.
[52] Saluto ai giovani del Centro Culturale Padre Félix Varela, L’Avana – Cuba (20 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 settembre 2015, p. 6.
[53] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.
[54] S. Ireneo di Lione, Adversus haereses, II, 25, 2: PG 7/1, 798-s.
[55] Talmud Bavli (Talmud di Babilonia), Shabbat, 31 a.
[56] Discorso agli assistiti delle opere di carità della Chiesa, Tallin – Estonia (25 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 8.
[57] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[58] Homiliae in Mattheum, 50, 3-4: PG 58, 508.
[59] Messaggio in occasione dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – USA (10 febbraio 2017): AAS 109 (2017), 291.
[60] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 235: AAS 105 (2013), 1115.
[61] S. Giovanni Paolo II, Messaggio alle persone disabili. Angelus a Osnabrück – Germania (16 novembre1980): L’Osservatore Romano, 19 novembre 1980, Supplemento, p. XIII.
[62] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 24.
[63] Gabriel Marcel, Du refus à l’invocation, ed. NRF, París 1940, 50 (ed. it. Dal rifiuto all’invocazione, Città Nuova, Roma 1976, 62).
[64] Angelus (10 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 11-12 novembre 2019, p. 8.
[65] Cfr S. Tommaso d’Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, III, Dist. 27, q. 1, a. 1, ad 4: «Dicitur amor extasim facere, et fervere, quia quod fervet extra se bullit, et exhalat».
[66] Karol Wojtyła, Amore e responsabilità, Marietti, Casale Monferrato 1983, 90.
[67] Karl Rahner, S.I., Kleines Kirchenjahr. Ein Gang durch den Festkreis, Herder, Friburgo 1981, 30 (ed. it.
L’anno liturgico, Morcelliana, Brescia 1964, 34).
[68] Regula, 53, 15: «Pauperum et peregrinorum maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur».
[69] Cfr Summa Theologiae II-II, q. 23, art. 7; S. Agostino, Contra Julianum, 4, 18: PL 44, 748: «Essi [gli avari] si astengono dai piaceri sia per l’avidità di accrescere il guadagno, sia per il timore di diminuirlo».
[70] «Secundum acceptionem divinam» (Commentaria in III librum Sententiarum Petri Lombardi, Dist. 27, a. 1, q. 1, concl. 4).
[71] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 15: AAS 98 (2006), 230.
[72] Summa Theologiae II-II, q. 27, art. 2, resp.
[73] Cfr ibid. I-II, q. 26, a. 3, resp.
[74] Ibid., q. 110, a. 1, resp.
[75] Messaggio per la 47ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014 (8 dicembre 2013), 1: AAS 106 (2014), 22.
[76] Cfr Angelus (29 dicembre 2013): L’Osservatore Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7; Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2015): AAS 107 (2015), 165.
[77] Messaggio per la Giornata mondiale delle persone con disabilità (3 dicembre 2019): L’Osservatore Romano, 4 dicembre 2019, p. 7.
[78] Discorso nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati, Filadelfia – USA (26 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1050-1051.
[79] Discorso ai giovani, Tokyo – Giappone (25 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 10.
[80] In queste considerazioni mi lascio ispirare dal pensiero di Paul Ricoeur, “Il socio ed il prossimo”, in Histoire et vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 113-127.
[81] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 190: AAS 105 (2013), 1100.
[82] Ibid., 209: AAS 105 (2013), 1107.
[83] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[84] Messaggio per l’evento “Economy of Francesco” (1 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 12 maggio 2019, p. 8.
[85] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 997.
[86] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 229: AAS 107 (2015), 937.
[87] Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8 dicembre 2015), 6: AAS 108 (2016), 57-58.
[88] La solidità si trova nella radice etimologica della parola solidarietà. La solidarietà, nel significato etico-politico che essa ha assunto negli ultimi due secoli, dà luogo a una costruzione sociale sicura e salda.
[89] Omelia nella S. Messa, L’Avana – Cuba (20 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 settembre 2015, p. 8.
[90] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-852.
[91] Cfr S. Basilio, Homilia 21. Quod rebus mundanis adhaerendum non sit, 3.5: PG 31, 545-549; Regulae brevius tractatae, 92: PG 31, 1145-1148; S. Pietro Crisologo, Sermo 123: PL 52, 536-540; S. Ambrogio, De Nabuthe, 27.52: PL 14, 738s; S. Agostino, In Iohannis Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436s.
[92] De Lazaro, II, 6: PG 48, 992D.
[93] Regula pastoralis, III, 21: PL 77, 87.
[94] Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 31: AAS 83 (1991), 831.
[95] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884.
[96] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.
[97] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 172.
[98] Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268.
[99] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 33: AAS 80 (1988), 557.
[100] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 95: AAS 107 (2015), 885.
[101] Ibid., 129: AAS 107 (2015), 899.
[102] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 15: AAS 59 (1967), 265; Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 16: AAS 101 (2009), 652.
[103] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884-885; Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 189-190: AAS 105 (2013), 1099-1100.
[104] Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti, Open wide our Hearts: The enduring Call to Love. A Pastoral Letter against Racism (Novembre 2018).
[105] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 51: AAS 107 (2015), 867.
[106] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 6: AAS 101 (2009), 644.
[107] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 35: AAS 83 (1991), 838.
[108] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 6.
[109] Cfr Vescovi Cattolici del Messico e degli Stati Uniti, Lettera pastorale Strangers no longer: together on the journey of hope (Gennaio 2003).
[110] Udienza generale (3 aprile 2019): L’Osservatore Romano, 4 aprile 2019, p. 8.
[111] Cfr Messaggio per la 104ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (14 gennaio 2018): AAS 109 (2017), 918-923).
[112] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[113] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016), 124.
[114] Ibid.: AAS 108 (2016), 122.
[115] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 93.
[117] Discorso alle Autorità, Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno 2015, p. 7.
[118] Latinoamérica. Conversaciones con Hernán Reyes Alcaide, Ed. Planeta, Buenos Aires 2017, 105.
[119] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[120] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700.
[121] Ibid., 60: AAS 101 (2009), 695.
[122] Ibid., 67: AAS 101 (2009), 700.
[123] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 447.
124] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 234: AAS 105 (2013), 1115.
[125] Ibid., 235: AAS 105 (2013), 1115.
[127] S. Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo della cultura argentina, Buenos Aires – Argentina (12 aprile 1987), 4: L’Osservatore Romano, 14 aprile 1987, p. 7.
[128] Cfr Id., Discorso ai Cardinali (21 dicembre 1984), 4: AAS 76 (1984), 506.
[129] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2 febbraio 2020), 37.
[130] Georg Simmel, Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, Köhler-Verlag, Stuttgart 1957, p. 6 (ed. it. Ponte e porta, in Saggi di estetica, a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, 8).
[131] Cfr Jaime Hoyos-Vásquez, S.I., Lógica de las relaciones sociales. Reflexión ontológica, in Revista Universitas Philosophica, 15-16, dicembre 1990 - giugno 1991, Bogotá, 95-106.
[132] Antonio Spadaro, S.I., Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco, in Jorge Mario Bergoglio/Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016, XVI; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 220-221: AAS 105 (2013), 1110-1111.
[133] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 204: AAS 105 (2013), 1106.
[134] Cfr ibid.: AAS 105 (2013), 1105-1106.
[135] Ibid., 202: AAS 105 (2013), 1105.
[136] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 128: AAS 107 (2015), 898.
[137] Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2015): AAS (107) (2015), 165; cfr Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari(28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-859.
[138] Qualcosa di simile si può dire della categoria biblica di “Regno di Dio”.
[139] Paul Ricoeur, Histoire et vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 122 (ed. it. A. Plé et al., L’amore del prossimo, Paoline, Alba 1958, 247).
[140] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[141] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 35: AAS 101 (2009), 670.
[142] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 858.
[144] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (5 novembre 2016): L’Osservatore Romano, 7-8 novembre 2016, pp. 4-5.
[147] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[148] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1037.
[149] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 175: AAS 107 (2015), 916-917.
[150] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700-701.
[151] Ibid.: AAS 101 (2009), 700.
[152] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 434.
[153] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1037.1041.
[154] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 437.
[155] S. Giovanni Paolo II, Messaggio per la 37ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2004, 5: AAS 96 (2004), 117.
[156] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 439.
[157] Cfr Commissione Sociale dei Vescovi di Francia, Dich. Réhabiliter la politique (17 febbraio 1999).
[158] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[159] Ibid., 196: AAS 107 (2015), 925.
[160] Ibid., 197: AAS 107 (2015), 925.
[161] Ibid., 181: AAS 107 (2015), 919.
[162] Ibid., 178: AAS 107 (2015), 918.
[163] Conferenza Episcopale Portoghese, Lett. past. Responsabilidade solidária pelo bem comum (15 settembre 2003), 20; cfr Lett. enc. Laudato si’, 159: AAS 107 (2015), 911.
[164] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 191: AAS 107 (2015), 923.
[165] Pio XI, Discorso alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana (18 dicembre 1927): L’Osservatore Romano (23 dicembre 1927), 3.
[166] Cfr Id., Lett. enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931), 88: AAS 23 (1931), 206-207.
[167] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 205: AAS 105 (2013), 1106.
[168] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[169] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 231: AAS 107 (2015), 937.
[170] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[171] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[172] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 288.
[173] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 44: AAS 59 (1967), 279.
[174] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[175] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[176] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[177] Ibid., 4: AAS 101 (2009), 643.
[179] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[180] Ibid.: AAS 101 (2009), 642.
[181] La dottrina morale cattolica, seguendo l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, distingue tra l’atto “elicito” e l’atto “imperato” (cfr Summa Theologiae, I-II, q. 8-17; Marcellino Zalba, S.J., Theologiae moralis summa. Theologia moralis fundamentalis. Tractatus de virtutibus theologicis, ed. BAC, Madrid 1952, vol. 1, 69; Antonio Royo Marín, Teología de la Perfección cristiana, ed. BAC, Madrid 1962, 192-196).
[182] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 208.
[183] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572-574; Id. Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 11: AAS 83 (1991), 806-807.
[184] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 852.
[185] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 999.
[186] Discorso alla classe dirigente e al Corpo diplomatico, Bangui – Repubblica Centrafricana (29 novembre 2015): AAS 107 (2015), 1320.
[187] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1039.
[188] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 853.
[189] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[190] René Voillaume, Frère de tous, Ed. du Cerf, Paris 1968, 12-13.
[191] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[192] Udienza generale (18 febbraio 2015): L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015, p. 8.
[193] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 274: AAS 105 (2013), 1130.
[194] Ibid., 279: AAS 105 (2013), 1132.
[195] Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2019 (8 dicembre 2018), 5: L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2018, p. 8.
[196] Discorso nell’Incontro con la classe dirigente, Rio de Janeiro – Brasile (27 luglio 2013): AAS 105 (2013), 683-684.
[197] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2 febbraio 2020), 108.
[198] Dal film Papa Francesco – Un uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[199] Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24 gennaio 2014): AAS 106 (2014), 113.
[200] Conferenza dei Vescovi Cattolici di Australia, Dipartimento di Giustizia sociale, Making it real: genuine human encounter in our digital world (novembre 2019), 5.
[201] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 123: AAS 107 (2015), 896.
[202] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 96: AAS 85 (1993), 1209.
[203] Come cristiani crediamo, inoltre, che Dio dona la sua grazia affinché sia possibile agire come fratelli.
[204] Vinicius De Moraes, Samba della benedizione (Samba da Bênção), nel disco Um encontro no Au bon Gourmet, Rio de Janeiro (2 agosto 1962).
[205] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 237: AAS 105 (2013), 1116.
[206] Ibid., 236: AAS 105 (2013), 1115.
[207] Ibid., 218: AAS 105 (2013), 1110.
[208] Esort. ap. postsin. Amoris laetitia (19 marzo 2016), 100: AAS 108 (2016), 351.
[209] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[210] Conferenza Episcopale del Congo, Message au Peuple de Dieu et aux femmes et aux hommes de bonne volonté (9 maggio 2018).
[211] Discorso nel grande incontro di preghiera per la riconciliazione nazionale, Villavicencio – Colombia (8 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1063-1064. 1066.
[212] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 3: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[213] Conferenza dei Vescovi del Sudafrica, Pastoral letter on christian hope in the current crisis (maggio 1986).
[214] Conferenza dei Vescovi Cattolici della Corea, Appeal of the Catholic Church in Korea for Peace on the Korean Peninsula (15 agosto 2017).
[215] Discorso alla società civile, Quito – Ecuador (7 luglio 2015): L’Osservatore Romano, 9 luglio 2015, p. 9.
[216] Discorso nell’Incontro interreligioso con i giovani, Maputo – Mozambico (5 settembre 2019): L’Osservatore Romano, 6 settembre 2019, p. 7.
[217] Omelia nella S. Messa, Cartagena de Indias – Colombia (10 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1086.
[218] Discorso alle Autorità, al Corpo diplomatico e a rappresentanti della società civile, Bogotá – Colombia (7 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1029.
[219] Conferenza Episcopale della Colombia, Por el bien de Colombia: diálogo, reconciliación y desarrollo integral (26 novembre 2019), 4.
[220] Discorso alle Autorità, alla società civile e al Corpo diplomatico, Maputo – Mozambico (5 settembre 2019): L’Osservatore Romano, 6 settembre 2019, p. 6.
[221] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 398 (ed. it. EDB, Bologna 2014).
[222] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 59: AAS 105 (2013), 1044.
[223] Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 14: AAS 83 (1991), 810.
[224] Omelia nella S. Messa per lo sviluppo dei popoli, Maputo – Mozambico (6 settembre 2019): L’Osservatore Romano, 7 settembre 2019, p. 8.
[225] Discorso nella cerimonia di benvenuto, Colombo – Sri Lanka (13 gennaio 2015): L’Osservatore Romano, 14 gennaio 2015, p. 7.
[226] Discorso ai bambini del Centro Betania e a una rappresentanza di assistiti di altri centri caritativi dell’Albania, Tirana – Albania (21 settembre 2014): Insegnamenti, II, 2 (2014), 288.
[227] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[229] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 228: AAS 105 (2013), 1113.
[230] Discorso alle Autorità, alla società civile e al Corpo diplomatico, Riga – Lettonia (24 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 24-25 settembre 2018, p. 7.
[231] Discorso nella Cerimonia di benvenuto, Tel Aviv – Israele (25 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 604.
[232] Discorso presso il Memoriale di Yad Vashem, Gerusalemme (26 maggio 2014): AAS 106 (2014), 228.
[233] Discorso presso il Memoriale della Pace, Hiroshima – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 8.
[234] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[235] Conferenza dei Vescovi della Croazia, Letter on the Fiftieth Anniversary of the End of the Second World War (1 maggio 1995).
[236] Omelia nella S. Messa, Amman – Giordania (24 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 593.
[237] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[238] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1041-1042.
[239] N. 2309.
[240] Ibid.
[241] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 104: AAS 107 (2015), 888.
[242] Anche Sant’Agostino, che elaborò un’idea della “guerra giusta” che oggi ormai non sosteniamo, disse che «dare la morte alla guerra con la parola, e raggiungere e ottenere la pace con la pace e non con la guerra, è maggior gloria che darla agli uomini con la spada» (Epistula 229, 2: PL 33, 1020).
[243] Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 67: AAS 55 (1963), 291.
[244] Messaggio alla Conferenza dell’ONU per la negoziazione di uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari (23 marzo 2017): AAS 109 (2017), 394-396.
[245] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 51: AAS 59 (1967), 282.
[246] Cfr Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 56: AAS 87 (1995), 463-464.
[247] Discorso in occasione del 25º anniversario del Catechismo della Chiesa Cattolica (11 ottobre 2017): AAS 109 (2017), 1196.
[248] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi circa la nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte (1 agosto 2018): L’Osservatore Romano, 3 agosto 2018, p. 8.
[249] Discorso a una delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale (23 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 840.
[250] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 402.
[251] S. Giovanni Paolo II, Discorso all’Associazione Nazionale Magistrati (31 marzo 2000), 4: AAS 92 (2000), 633.
[252] Divinae Institutiones VI, 20, 17: PL 6, 708.
[253] Epistula 97 (responsa ad consulta bulgarorum), 25: PL 119, 991.
[254] Epistula ad Marcellinum, 133, 1.2: PL 33, 509.
[255] Discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale (23 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 840-841.
[256] Ibid.: AAS 106 (2014), 842.
[258] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 9: AAS 87 (1995), 411.
[259] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’India, Response of the Church in India to the present day challenges (9 marzo 2016).
[260] Omelia nella S. Messa, Domus Sanctae Marthae (17 maggio 2020).
[261] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[262] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 44: AAS 83 (1991), 849.
[263] Discorso ai leader di altre religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana – Albania (21 settembre 2014): Insegnamenti, II, 2 (2014), 277.
[264] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019), L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[265] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 256: AAS 105 (2013), 1123.
[266] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 28: AAS 98 (2006), 240.
[267] «L’essere umano è un animale politico» (Aristotele, Politica, 1253a 1-3).
[268] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 11: AAS 101 (2009), 648.
[269] Discorso alla comunità cattolica, Rakovsky – Bulgaria (6 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio 2019, p. 9.
[270] Omelia nella S. Messa, Santiago di Cuba (22 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1005.
[271] Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Nostra aetate, 2.
[272] Discorso nell’Incontro ecumenico, Riga – Lettonia (24 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 24-25 settembre 2018, p. 8.
[273] Lectio divina alla Pontificia Università Lateranense (26 marzo 2019): L’Osservatore Romano, 27 marzo 2019, p. 10.
[274] S. Paolo VI, Lett. enc. Ecclesiam suam (6 agosto 1964), 101: AAS 56 (1964), 650.
[275] Discorso alle Autorità palestinesi, Betlemme – Palestina (25 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 597.
[276] Enarrationes in Psalmos, 130, 6: PL 37, 1707.
[277] Dichiarazione congiunta del Santo Padre Francesco e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Gerusalemme (25 maggio 2014), 5: L’Osservatore Romano, 26-27 maggio 2014, p. 6.
[278] Dal film Papa Francesco. Un uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[279] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2 febbraio 2020), 106.
[280] Omelia nella S. Messa, Colombo – Sri Lanka (14 gennaio 2015): AAS 107 (2015), 139.
[281] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[282] Discorso alle Autorità, Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno 2015, p. 7.
[283] Discorso ai partecipanti all’Incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio (30 settembre 2013): Insegnamenti, I, 2 (2013), 301-302.
[284] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[286] Cfr B. Charles de Foucauld, Meditazione sul Padre nostro (23 gennaio 1897): Opere spirituali, Ed. Paoline, Roma 1983, 555-562.
[287] Id., Lettera a Henry de Castries (29 novembre 1901): Id., Solo con Dio in compagnia dei fratelli, a cura di E. Bolis, Ed. Paoline, Milano 2002, 254.
[288] Id., Lettera a Madame de Bondy (7 gennaio 1902): cit. in P. Sourisseau, Charles de Foucauld 1858-1916. Biografia, trad. a cura delle Discepole del Vangelo e A. Mandonico, Effatà, Cantalupa (TO), 359. Così lo chiamava anche S. Paolo VI elogiando il suo impegno: Enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 12: AAS 59 (1967), 263.
영어 - ENCYCLICAL LETTER FRATELLI TUTTI OF THE HOLY FATHER FRANCIS
ON THE FRATERNITY AND SOCIAL FRIENDSHIP
1. “FRATELLI TUTTI”.[1] With these words, Saint Francis of Assisi addressed his brothers and sisters and proposed to them a way of life marked by the flavour of the Gospel. Of the counsels Francis offered, I would like to select the one in which he calls for a love that transcends the barriers of geography and distance, and declares blessed all those who love their brother “as much when he is far away from him as when he is with him”.[2] In his simple and direct way, Saint Francis expressed the essence of a fraternal openness that allows us to acknowledge, appreciate and love each person, regardless of physical proximity, regardless of where he or she was born or lives.
2. This saint of fraternal love, simplicity and joy, who inspired me to write the Encyclical Laudato Si’, prompts me once more to devote this new Encyclical to fraternity and social friendship. Francis felt himself a brother to the sun, the sea and the wind, yet he knew that he was even closer to those of his own flesh. Wherever he went, he sowed seeds of peace and walked alongside the poor, the abandoned, the infirm and the outcast, the least of his brothers and sisters.
3. There is an episode in the life of Saint Francis that shows his openness of heart, which knew no bounds and transcended differences of origin, nationality, colour or religion. It was his visit to Sultan Malik-el-Kamil, in Egypt, which entailed considerable hardship, given Francis’ poverty, his scarce resources, the great distances to be traveled and their differences of language, culture and religion. That journey, undertaken at the time of the Crusades, further demonstrated the breadth and grandeur of his love, which sought to embrace everyone. Francis’ fidelity to his Lord was commensurate with his love for his brothers and sisters. Unconcerned for the hardships and dangers involved, Francis went to meet the Sultan with the same attitude that he instilled in his disciples: if they found themselves “among the Saracens and other nonbelievers”, without renouncing their own identity they were not to “engage in arguments or disputes, but to be subject to every human creature for God’s sake”.[3] In the context of the times, this was an extraordinary recommendation. We are impressed that some eight hundred years ago Saint Francis urged that all forms of hostility or conflict be avoided and that a humble and fraternal “subjection” be shown to those who did not share his faith.
4. Francis did not wage a war of words aimed at imposing doctrines; he simply spread the love of God. He understood that “God is love and those who abide in love abide in God” (1 Jn 4:16). In this way, he became a father to all and inspired the vision of a fraternal society. Indeed, “only the man who approaches others, not to draw them into his own life, but to help them become ever more fully themselves, can truly be called a father”.[4] In the world of that time, bristling with watchtowers and defensive walls, cities were a theatre of brutal wars between powerful families, even as poverty was spreading through the countryside. Yet there Francis was able to welcome true peace into his heart and free himself of the desire to wield power over others. He became one of the poor and sought to live in harmony with all. Francis has inspired these pages.
5. Issues of human fraternity and social friendship have always been a concern of mine. In recent years, I have spoken of them repeatedly and in different settings. In this Encyclical, I have sought to bring together many of those statements and to situate them in a broader context of reflection. In the preparation of Laudato Si’, I had a source of inspiration in my brother Bartholomew, the Orthodox Patriarch, who has spoken forcefully of our need to care for creation. In this case, I have felt particularly encouraged by the Grand Imam Ahmad Al-Tayyeb, with whom I met in Abu Dhabi, where we declared that “God has created all human beings equal in rights, duties and dignity, and has called them to live together as brothers and sisters”.[5] This was no mere diplomatic gesture, but a reflection born of dialogue and common commitment. The present Encyclical takes up and develops some of the great themes raised in the Document that we both signed. I have also incorporated, along with my own thoughts, a number of letters, documents and considerations that I have received from many individuals and groups throughout the world.
6. The following pages do not claim to offer a complete teaching on fraternal love, but rather to consider its universal scope, its openness to every man and woman. I offer this social Encyclical as a modest contribution to continued reflection, in the hope that in the face of present-day attempts to eliminate or ignore others, we may prove capable of responding with a new vision of fraternity and social friendship that will not remain at the level of words. Although I have written it from the Christian convictions that inspire and sustain me, I have sought to make this reflection an invitation to dialogue among all people of good will.
7. As I was writing this letter, the Covid-19 pandemic unexpectedly erupted, exposing our false securities. Aside from the different ways that various countries responded to the crisis, their inability to work together became quite evident. For all our hyper-connectivity, we witnessed a fragmentation that made it more difficult to resolve problems that affect us all. Anyone who thinks that the only lesson to be learned was the need to improve what we were already doing, or to refine existing systems and regulations, is denying reality.
8. It is my desire that, in this our time, by acknowledging the dignity of each human person, we can contribute to the rebirth of a universal aspiration to fraternity. Fraternity between all men and women. “Here we have a splendid secret that shows us how to dream and to turn our life into a wonderful adventure. No one can face life in isolation… We need a community that supports and helps us, in which we can help one another to keep looking ahead. How important it is to dream together… By ourselves, we risk seeing mirages, things that are not there. Dreams, on the other hand, are built together”.[6] Let us dream, then, as a single human family, as fellow travelers sharing the same flesh, as children of the same earth which is our common home, each of us bringing the richness of his or her beliefs and convictions, each of us with his or her own voice, brothers and sisters all.
DARK CLOUDS OVER A CLOSED WORLD
9. Without claiming to carry out an exhaustive analysis or to study every aspect of our present-day experience, I intend simply to consider certain trends in our world that hinder the development of universal fraternity.
10. For decades, it seemed that the world had learned a lesson from its many wars and disasters, and was slowly moving towards various forms of integration. For example, there was the dream of a united Europe, capable of acknowledging its shared roots and rejoicing in its rich diversity. We think of “the firm conviction of the founders of the European Union, who envisioned a future based on the capacity to work together in bridging divisions and in fostering peace and fellowship between all the peoples of this continent”.[7] There was also a growing desire for integration in Latin America, and several steps were taken in this direction. In some countries and regions, attempts at reconciliation and rapprochement proved fruitful, while others showed great promise.
11. Our own days, however, seem to be showing signs of a certain regression. Ancient conflicts thought long buried are breaking out anew, while instances of a myopic, extremist, resentful and aggressive nationalism are on the rise. In some countries, a concept of popular and national unity influenced by various ideologies is creating new forms of selfishness and a loss of the social sense under the guise of defending national interests. Once more we are being reminded that “each new generation must take up the struggles and attainments of past generations, while setting its sights even higher. This is the path. Goodness, together with love, justice and solidarity, are not achieved once and for all; they have to be realized each day. It is not possible to settle for what was achieved in the past and complacently enjoy it, as if we could somehow disregard the fact that many of our brothers and sisters still endure situations that cry out for our attention”.[8]
12. “Opening up to the world” is an expression that has been co-opted by the economic and financial sector and is now used exclusively of openness to foreign interests or to the freedom of economic powers to invest without obstacles or complications in all countries. Local conflicts and disregard for the common good are exploited by the global economy in order to impose a single cultural model. This culture unifies the world, but divides persons and nations, for “as society becomes ever more globalized, it makes us neighbours, but does not make us brothers”.[9] We are more alone than ever in an increasingly massified world that promotes individual interests and weakens the communitarian dimension of life. Indeed, there are markets where individuals become mere consumers or bystanders. As a rule, the advance of this kind of globalism strengthens the identity of the more powerful, who can protect themselves, but it tends to diminish the identity of the weaker and poorer regions, making them more vulnerable and dependent. In this way, political life becomes increasingly fragile in the face of transnational economic powers that operate with the principle of “divide and conquer”.
The end of historical consciousness
13. As a result, there is a growing loss of the sense of history, which leads to even further breakup. A kind of “deconstructionism”, whereby human freedom claims to create everything starting from zero, is making headway in today’s culture. The one thing it leaves in its wake is the drive to limitless consumption and expressions of empty individualism. Concern about this led me to offer the young some advice. “If someone tells young people to ignore their history, to reject the experiences of their elders, to look down on the past and to look forward to a future that he himself holds out, doesn’t it then become easy to draw them along so that they only do what he tells them? He needs the young to be shallow, uprooted and distrustful, so that they can trust only in his promises and act according to his plans. That is how various ideologies operate: they destroy (or deconstruct) all differences so that they can reign unopposed. To do so, however, they need young people who have no use for history, who spurn the spiritual and human riches inherited from past generations, and are ignorant of everything that came before them”.[10]
14. These are the new forms of cultural colonization. Let us not forget that “peoples that abandon their tradition and, either from a craze to mimic others or to foment violence, or from unpardonable negligence or apathy, allow others to rob their very soul, end up losing not only their spiritual identity but also their moral consistency and, in the end, their intellectual, economic and political independence”.[11] One effective way to weaken historical consciousness, critical thinking, the struggle for justice and the processes of integration is to empty great words of their meaning or to manipulate them. Nowadays, what do certain words like democracy, freedom, justice or unity really mean? They have been bent and shaped to serve as tools for domination, as meaningless tags that can be used to justify any action.
15. The best way to dominate and gain control over people is to spread despair and discouragement, even under the guise of defending certain values. Today, in many countries, hyperbole, extremism and polarization have become political tools. Employing a strategy of ridicule, suspicion and relentless criticism, in a variety of ways one denies the right of others to exist or to have an opinion. Their share of the truth and their values are rejected and, as a result, the life of society is impoverished and subjected to the hubris of the powerful. Political life no longer has to do with healthy debates about long-term plans to improve people’s lives and to advance the common good, but only with slick marketing techniques primarily aimed at discrediting others. In this craven exchange of charges and counter-charges, debate degenerates into a permanent state of disagreement and confrontation.
16. Amid the fray of conflicting interests, where victory consists in eliminating one’s opponents, how is it possible to raise our sights to recognize our neighbours or to help those who have fallen along the way? A plan that would set great goals for the development of our entire human family nowadays sounds like madness. We are growing ever more distant from one another, while the slow and demanding march towards an increasingly united and just world is suffering a new and dramatic setback.
17. To care for the world in which we live means to care for ourselves. Yet we need to think of ourselves more and more as a single family dwelling in a common home. Such care does not interest those economic powers that demand quick profits. Often the voices raised in defence of the environment are silenced or ridiculed, using apparently reasonable arguments that are merely a screen for special interests. In this shallow, short-sighted culture that we have created, bereft of a shared vision, “it is foreseeable that, once certain resources have been depleted, the scene will be set for new wars, albeit under the guise of noble claims”.[12]
A “throwaway” world
18. Some parts of our human family, it appears, can be readily sacrificed for the sake of others considered worthy of a carefree existence. Ultimately, “persons are no longer seen as a paramount value to be cared for and respected, especially when they are poor and disabled, ‘not yet useful’ – like the unborn, or ‘no longer needed’ – like the elderly. We have grown indifferent to all kinds of wastefulness, starting with the waste of food, which is deplorable in the extreme”.[13]
19. A decline in the birthrate, which leads to the aging of the population, together with the relegation of the elderly to a sad and lonely existence, is a subtle way of stating that it is all about us, that our individual concerns are the only thing that matters. In this way, “what is thrown away are not only food and dispensable objects, but often human beings themselves”.[14] We have seen what happened with the elderly in certain places in our world as a result of the coronavirus. They did not have to die that way. Yet something similar had long been occurring during heat waves and in other situations: older people found themselves cruelly abandoned. We fail to realize that, by isolating the elderly and leaving them in the care of others without the closeness and concern of family members, we disfigure and impoverish the family itself. We also end up depriving young people of a necessary connection to their roots and a wisdom that the young cannot achieve on their own.
20. This way of discarding others can take a variety of forms, such as an obsession with reducing labour costs with no concern for its grave consequences, since the unemployment that it directly generates leads to the expansion of poverty.[15] In addition, a readiness to discard others finds expression in vicious attitudes that we thought long past, such as racism, which retreats underground only to keep reemerging. Instances of racism continue to shame us, for they show that our supposed social progress is not as real or definitive as we think.
21. Some economic rules have proved effective for growth, but not for integral human development.[16] Wealth has increased, but together with inequality, with the result that “new forms of poverty are emerging”.[17] The claim that the modern world has reduced poverty is made by measuring poverty with criteria from the past that do not correspond to present-day realities. In other times, for example, lack of access to electric energy was not considered a sign of poverty, nor was it a source of hardship. Poverty must always be understood and gauged in the context of the actual opportunities available in each concrete historical period.
Insufficiently universal human rights
22. It frequently becomes clear that, in practice, human rights are not equal for all. Respect for those rights “is the preliminary condition for a country’s social and economic development. When the dignity of the human person is respected, and his or her rights recognized and guaranteed, creativity and interdependence thrive, and the creativity of the human personality is released through actions that further the common good”.[18] Yet, “by closely observing our contemporary societies, we see numerous contradictions that lead us to wonder whether the equal dignity of all human beings, solemnly proclaimed seventy years ago, is truly recognized, respected, protected and promoted in every situation. In today’s world, many forms of injustice persist, fed by reductive anthropological visions and by a profit-based economic model that does not hesitate to exploit, discard and even kill human beings. While one part of humanity lives in opulence, another part sees its own dignity denied, scorned or trampled upon, and its fundamental rights discarded or violated”.[19] What does this tell us about the equality of rights grounded in innate human dignity?
23. Similarly, the organization of societies worldwide is still far from reflecting clearly that women possess the same dignity and identical rights as men. We say one thing with words, but our decisions and reality tell another story. Indeed, “doubly poor are those women who endure situations of exclusion, mistreatment and violence, since they are frequently less able to defend their rights”.[20]
24. We should also recognize that “even though the international community has adopted numerous agreements aimed at ending slavery in all its forms, and has launched various strategies to combat this phenomenon, millions of people today – children, women and men of all ages – are deprived of freedom and forced to live in conditions akin to slavery… Today, as in the past, slavery is rooted in a notion of the human person that allows him or her to be treated as an object… Whether by coercion, or deception, or by physical or psychological duress, human persons created in the image and likeness of God are deprived of their freedom, sold and reduced to being the property of others. They are treated as means to an end… [Criminal networks] are skilled in using modern means of communication as a way of luring young men and women in various parts of the world”.[21] A perversion that exceeds all limits when it subjugates women and then forces them to abort. An abomination that goes to the length of kidnapping persons for the sake of selling their organs. Trafficking in persons and other contemporary forms of enslavement are a worldwide problem that needs to be taken seriously by humanity as a whole: “since criminal organizations employ global networks to achieve their goals, efforts to eliminate this phenomenon also demand a common and, indeed, a global effort on the part of various sectors of society”.[22]
Conflict and fear
25. War, terrorist attacks, racial or religious persecution, and many other affronts to human dignity are judged differently, depending on how convenient it proves for certain, primarily economic, interests. What is true as long as it is convenient for someone in power stops being true once it becomes inconvenient. These situations of violence, sad to say, “have become so common as to constitute a real ‘third world war’ fought piecemeal”.[23]
26. This should not be surprising, if we realize that we no longer have common horizons that unite us; indeed, the first victim of every war is “the human family’s innate vocation to fraternity”. As a result, “every threatening situation breeds mistrust and leads people to withdraw into their own safety zone”.[24] Our world is trapped in a strange contradiction: we believe that we can “ensure stability and peace through a false sense of security sustained by a mentality of fear and mistrust”.[25]
27. Paradoxically, we have certain ancestral fears that technological development has not succeeded in eliminating; indeed, those fears have been able to hide and spread behind new technologies. Today too, outside the ancient town walls lies the abyss, the territory of the unknown, the wilderness. Whatever comes from there cannot be trusted, for it is unknown, unfamiliar, not part of the village. It is the territory of the “barbarian”, from whom we must defend ourselves at all costs. As a result, new walls are erected for self-preservation, the outside world ceases to exist and leaves only “my” world, to the point that others, no longer considered human beings possessed of an inalienable dignity, become only “them”. Once more, we encounter “the temptation to build a culture of walls, to raise walls, walls in the heart, walls on the land, in order to prevent this encounter with other cultures, with other people. And those who raise walls will end up as slaves within the very walls they have built. They are left without horizons, for they lack this interchange with others”.[26]
28. The loneliness, fear and insecurity experienced by those who feel abandoned by the system creates a fertile terrain for various “mafias”. These flourish because they claim to be defenders of the forgotten, often by providing various forms of assistance even as they pursue their criminal interests. There also exists a typically “mafioso” pedagogy that, by appealing to a false communitarian mystique, creates bonds of dependency and fealty from which it is very difficult to break free.
GLOBALIZATION AND PROGRESS WITHOUT A SHARED ROADMAP
29. With the Grand Imam Ahmad Al-Tayyeb, we do not ignore the positive advances made in the areas of science, technology, medicine, industry and welfare, above all in developed countries. Nonetheless, “we wish to emphasize that, together with these historical advances, great and valued as they are, there exists a moral deterioration that influences international action and a weakening of spiritual values and responsibility. This contributes to a general feeling of frustration, isolation and desperation”. We see “outbreaks of tension and a buildup of arms and ammunition in a global context dominated by uncertainty, disillusionment, fear of the future, and controlled by narrow economic interests”. We can also point to “major political crises, situations of injustice and the lack of an equitable distribution of natural resources… In the face of such crises that result in the deaths of millions of children – emaciated from poverty and hunger – there is an unacceptable silence on the international level”.[27] This panorama, for all its undeniable advances, does not appear to lead to a more humane future.
30. In today’s world, the sense of belonging to a single human family is fading, and the dream of working together for justice and peace seems an outdated utopia. What reigns instead is a cool, comfortable and globalized indifference, born of deep disillusionment concealed behind a deceptive illusion: thinking that we are all-powerful, while failing to realize that we are all in the same boat. This illusion, unmindful of the great fraternal values, leads to “a sort of cynicism. For that is the temptation we face if we go down the road of disenchantment and disappointment… Isolation and withdrawal into one’s own interests are never the way to restore hope and bring about renewal. Rather, it is closeness; it is the culture of encounter. Isolation, no; closeness, yes. Culture clash, no; culture of encounter, yes”.[28]
31. In this world that races ahead, yet lacks a shared roadmap, we increasingly sense that “the gap between concern for one’s personal well-being and the prosperity of the larger human family seems to be stretching to the point of complete division between individuals and human community… It is one thing to feel forced to live together, but something entirely different to value the richness and beauty of those seeds of common life that need to be sought out and cultivated”.[29] Technology is constantly advancing, yet “how wonderful it would be if the growth of scientific and technological innovation could come with more equality and social inclusion. How wonderful would it be, even as we discover faraway planets, to rediscover the needs of the brothers and sisters who orbit around us”.[30]
PANDEMICS AND OTHER CALAMITIES IN HISTORY
32. True, a worldwide tragedy like the Covid-19 pandemic momentarily revived the sense that we are a global community, all in the same boat, where one person’s problems are the problems of all. Once more we realized that no one is saved alone; we can only be saved together. As I said in those days, “the storm has exposed our vulnerability and uncovered those false and superfluous certainties around which we constructed our daily schedules, our projects, our habits and priorities… Amid this storm, the façade of those stereotypes with which we camouflaged our egos, always worrying about appearances, has fallen away, revealing once more the ineluctable and blessed awareness that we are part of one another, that we are brothers and sisters of one another”.[31]
33. The world was relentlessly moving towards an economy that, thanks to technological progress, sought to reduce “human costs”; there were those who would have had us believe that freedom of the market was sufficient to keep everything secure. Yet the brutal and unforeseen blow of this uncontrolled pandemic forced us to recover our concern for human beings, for everyone, rather than for the benefit of a few. Today we can recognize that “we fed ourselves on dreams of splendour and grandeur, and ended up consuming distraction, insularity and solitude. We gorged ourselves on networking, and lost the taste of fraternity. We looked for quick and safe results, only to find ourselves overwhelmed by impatience and anxiety. Prisoners of a virtual reality, we lost the taste and flavour of the truly real”.[32] The pain, uncertainty and fear, and the realization of our own limitations, brought on by the pandemic have only made it all the more urgent that we rethink our styles of life, our relationships, the organization of our societies and, above all, the meaning of our existence.
34. If everything is connected, it is hard to imagine that this global disaster is unrelated to our way of approaching reality, our claim to be absolute masters of our own lives and of all that exists. I do not want to speak of divine retribution, nor would it be sufficient to say that the harm we do to nature is itself the punishment for our offences. The world is itself crying out in rebellion. We are reminded of the well-known verse of the poet Virgil that evokes the “tears of things”, the misfortunes of life and history.[33]
35. All too quickly, however, we forget the lessons of history, “the teacher of life”.[34] Once this health crisis passes, our worst response would be to plunge even more deeply into feverish consumerism and new forms of egotistic self-preservation. God willing, after all this, we will think no longer in terms of “them” and “those”, but only “us”. If only this may prove not to be just another tragedy of history from which we learned nothing. If only we might keep in mind all those elderly persons who died for lack of respirators, partly as a result of the dismantling, year after year, of healthcare systems. If only this immense sorrow may not prove useless, but enable us to take a step forward towards a new style of life. If only we might rediscover once for all that we need one another, and that in this way our human family can experience a rebirth, with all its faces, all its hands and all its voices, beyond the walls that we have erected.
36. Unless we recover the shared passion to create a community of belonging and solidarity worthy of our time, our energy and our resources, the global illusion that misled us will collapse and leave many in the grip of anguish and emptiness. Nor should we naively refuse to recognize that “obsession with a consumerist lifestyle, above all when few people are capable of maintaining it, can only lead to violence and mutual destruction”.[35] The notion of “every man for himself” will rapidly degenerate into a free-for-all that would prove worse than any pandemic.
AN ABSENCE OF HUMAN DIGNITY ON THE BORDERS
37. Certain populist political regimes, as well as certain liberal economic approaches, maintain that an influx of migrants is to be prevented at all costs. Arguments are also made for the propriety of limiting aid to poor countries, so that they can hit rock bottom and find themselves forced to take austerity measures. One fails to realize that behind such statements, abstract and hard to support, great numbers of lives are at stake. Many migrants have fled from war, persecution and natural catastrophes. Others, rightly, “are seeking opportunities for themselves and their families. They dream of a better future and they want to create the conditions for achieving it”.[36]
38. Sadly, some “are attracted by Western culture, sometimes with unrealistic expectations that expose them to grave disappointments. Unscrupulous traffickers, frequently linked to drug cartels or arms cartels, exploit the weakness of migrants, who too often experience violence, trafficking, psychological and physical abuse and untold sufferings on their journey”.[37] Those who emigrate “experience separation from their place of origin, and often a cultural and religious uprooting as well. Fragmentation is also felt by the communities they leave behind, which lose their most vigorous and enterprising elements, and by families, especially when one or both of the parents migrates, leaving the children in the country of origin”.[38] For this reason, “there is also a need to reaffirm the right not to emigrate, that is, to remain in one’s homeland”.[39]
39. Then too, “in some host countries, migration causes fear and alarm, often fomented and exploited for political purposes. This can lead to a xenophobic mentality, as people close in on themselves, and it needs to be addressed decisively”.[40] Migrants are not seen as entitled like others to participate in the life of society, and it is forgotten that they possess the same intrinsic dignity as any person. Hence they ought to be “agents in their own redemption”.[41] No one will ever openly deny that they are human beings, yet in practice, by our decisions and the way we treat them, we can show that we consider them less worthy, less important, less human. For Christians, this way of thinking and acting is unacceptable, since it sets certain political preferences above deep convictions of our faith: the inalienable dignity of each human person regardless of origin, race or religion, and the supreme law of fraternal love.
40. “Migrations, more than ever before, will play a pivotal role in the future of our world”.[42] At present, however, migration is affected by the “loss of that sense of responsibility for our brothers and sisters on which every civil society is based”.[43] Europe, for example, seriously risks taking this path. Nonetheless, “aided by its great cultural and religious heritage, it has the means to defend the centrality of the human person and to find the right balance between its twofold moral responsibility to protect the rights of its citizens and to assure assistance and acceptance to migrants”.[44]
41. I realize that some people are hesitant and fearful with regard to migrants. I consider this part of our natural instinct of self-defence. Yet it is also true that an individual and a people are only fruitful and productive if they are able to develop a creative openness to others. I ask everyone to move beyond those primal reactions because “there is a problem when doubts and fears condition our way of thinking and acting to the point of making us intolerant, closed and perhaps even – without realizing it – racist. In this way, fear deprives us of the desire and the ability to encounter the other”.[45]
42. Oddly enough, while closed and intolerant attitudes towards others are on the rise, distances are otherwise shrinking or disappearing to the point that the right to privacy scarcely exists. Everything has become a kind of spectacle to be examined and inspected, and people’s lives are now under constant surveillance. Digital communication wants to bring everything out into the open; people’s lives are combed over, laid bare and bandied about, often anonymously. Respect for others disintegrates, and even as we dismiss, ignore or keep others distant, we can shamelessly peer into every detail of their lives.
42. Digital campaigns of hatred and destruction, for their part, are not – as some would have us believe – a positive form of mutual support, but simply an association of individuals united against a perceived common enemy. “Digital media can also expose people to the risk of addiction, isolation and a gradual loss of contact with concrete reality, blocking the development of authentic interpersonal relationships”.[46] They lack the physical gestures, facial expressions, moments of silence, body language and even the smells, the trembling of hands, the blushes and perspiration that speak to us and are a part of human communication. Digital relationships, which do not demand the slow and gradual cultivation of friendships, stable interaction or the building of a consensus that matures over time, have the appearance of sociability. Yet they do not really build community; instead, they tend to disguise and expand the very individualism that finds expression in xenophobia and in contempt for the vulnerable. Digital connectivity is not enough to build bridges. It is not capable of uniting humanity.
Shameless aggression
44. Even as individuals maintain their comfortable consumerist isolation, they can choose a form of constant and febrile bonding that encourages remarkable hostility, insults, abuse, defamation and verbal violence destructive of others, and this with a lack of restraint that could not exist in physical contact without tearing us all apart. Social aggression has found unparalleled room for expansion through computers and mobile devices.
45. This has now given free rein to ideologies. Things that until a few years ago could not be said by anyone without risking the loss of universal respect can now be said with impunity, and in the crudest of terms, even by some political figures. Nor should we forget that “there are huge economic interests operating in the digital world, capable of exercising forms of control as subtle as they are invasive, creating mechanisms for the manipulation of consciences and of the democratic process. The way many platforms work often ends up favouring encounter between persons who think alike, shielding them from debate. These closed circuits facilitate the spread of fake news and false information, fomenting prejudice and hate”.[47]
46. We should also recognize that destructive forms of fanaticism are at times found among religious believers, including Christians; they too “can be caught up in networks of verbal violence through the internet and the various forums of digital communication. Even in Catholic media, limits can be overstepped, defamation and slander can become commonplace, and all ethical standards and respect for the good name of others can be abandoned”.[48] How can this contribute to the fraternity that our common Father asks of us?
Information without wisdom
47. True wisdom demands an encounter with reality. Today, however, everything can be created, disguised and altered. A direct encounter even with the fringes of reality can thus prove intolerable. A mechanism of selection then comes into play, whereby I can immediately separate likes from dislikes, what I consider attractive from what I deem distasteful. In the same way, we can choose the people with whom we wish to share our world. Persons or situations we find unpleasant or disagreeable are simply deleted in today’s virtual networks; a virtual circle is then created, isolating us from the real world in which we are living.
48. The ability to sit down and listen to others, typical of interpersonal encounters, is paradigmatic of the welcoming attitude shown by those who transcend narcissism and accept others, caring for them and welcoming them into their lives. Yet “today’s world is largely a deaf world… At times, the frantic pace of the modern world prevents us from listening attentively to what another person is saying. Halfway through, we interrupt him and want to contradict what he has not even finished saying. We must not lose our ability to listen”. Saint Francis “heard the voice of God, he heard the voice of the poor, he heard the voice of the infirm and he heard the voice of nature. He made of them a way of life. My desire is that the seed that Saint Francis planted may grow in the hearts of many”.[49]
49. As silence and careful listening disappear, replaced by a frenzy of texting, this basic structure of sage human communication is at risk. A new lifestyle is emerging, where we create only what we want and exclude all that we cannot control or know instantly and superficially. This process, by its intrinsic logic, blocks the kind of serene reflection that could lead us to a shared wisdom.
50. Together, we can seek the truth in dialogue, in relaxed conversation or in passionate debate. To do so calls for perseverance; it entails moments of silence and suffering, yet it can patiently embrace the broader experience of individuals and peoples. The flood of information at our fingertips does not make for greater wisdom. Wisdom is not born of quick searches on the internet nor is it a mass of unverified data. That is not the way to mature in the encounter with truth. Conversations revolve only around the latest data; they become merely horizontal and cumulative. We fail to keep our attention focused, to penetrate to the heart of matters, and to recognize what is essential to give meaning to our lives. Freedom thus becomes an illusion that we are peddled, easily confused with the ability to navigate the internet. The process of building fraternity, be it local or universal, can only be undertaken by spirits that are free and open to authentic encounters.
FORMS OF SUBJECTION AND OF SELF-CONTEMPT
51. Certain economically prosperous countries tend to be proposed as cultural models for less developed countries; instead, each of those countries should be helped to grow in its own distinct way and to develop its capacity for innovation while respecting the values of its proper culture. A shallow and pathetic desire to imitate others leads to copying and consuming in place of creating, and fosters low national self-esteem. In the affluent sectors of many poor countries, and at times in those who have recently emerged from poverty, there is a resistance to native ways of thinking and acting, and a tendency to look down on one’s own cultural identity, as if it were the sole cause of every ill.
52. Destroying self-esteem is an easy way to dominate others. Behind these trends that tend to level our world, there flourish powerful interests that take advantage of such low self-esteem, while attempting, through the media and networks, to create a new culture in the service of the elite. This plays into the opportunism of financial speculators and raiders, and the poor always end up the losers. Then too, ignoring the culture of their people has led to the inability of many political leaders to devise an effective development plan that could be freely accepted and sustained over time.
53. We forget that “there is no worse form of alienation than to feel uprooted, belonging to no one. A land will be fruitful, and its people bear fruit and give birth to the future, only to the extent that it can foster a sense of belonging among its members, create bonds of integration between generations and different communities, and avoid all that makes us insensitive to others and leads to further alienation”.[50]
54. Despite these dark clouds, which may not be ignored, I would like in the following pages to take up and discuss many new paths of hope. For God continues to sow abundant seeds of goodness in our human family. The recent pandemic enabled us to recognize and appreciate once more all those around us who, in the midst of fear, responded by putting their lives on the line. We began to realize that our lives are interwoven with and sustained by ordinary people valiantly shaping the decisive events of our shared history: doctors, nurses, pharmacists, storekeepers and supermarket workers, cleaning personnel, caretakers, transport workers, men and women working to provide essential services and public safety, volunteers, priests and religious… They understood that no one is saved alone.[51]
55. I invite everyone to renewed hope, for hope “speaks to us of something deeply rooted in every human heart, independently of our circumstances and historical conditioning. Hope speaks to us of a thirst, an aspiration, a longing for a life of fulfillment, a desire to achieve great things, things that fill our heart and lift our spirit to lofty realities like truth, goodness and beauty, justice and love… Hope is bold; it can look beyond personal convenience, the petty securities and compensations which limit our horizon, and it can open us up to grand ideals that make life more beautiful and worthwhile”.[52] Let us continue, then, to advance along the paths of hope.
56. The previous chapter should not be read as a cool and detached description of today’s problems, for “the joys and hopes, the grief and anguish of the people of our time, especially of those who are poor or afflicted, are the joys and hopes, the grief and anguish of the followers of Christ as well. Nothing that is genuinely human fails to find an echo in their hearts”.[53] In the attempt to search for a ray of light in the midst of what we are experiencing, and before proposing a few lines of action, I now wish to devote a chapter to a parable told by Jesus Christ two thousand years ago. Although this Letter is addressed to all people of good will, regardless of their religious convictions, the parable is one that any of us can relate to and find challenging.
“Just then a lawyer stood up to test Jesus. ‘Teacher,’ he said, ‘what must I do to inherit eternal life?’ He said to him, ‘What is written in the law? What do you read there?’ He answered, ‘You shall love the Lord your God with all your heart, and with all your soul, and with all your strength, and with all your mind; and your neighbour as yourself.’ And he said to him, ‘You have given the right answer; do this, and you will live.’ But wanting to justify himself, he asked Jesus, ‘And who is my neighbour?’ Jesus replied, ‘A man was going down from Jerusalem to Jericho, and fell into the hands of robbers, who stripped him, beat him, and went away, leaving him half dead. Now by chance a priest was going down that road; and when he saw him, he passed by on the other side. So likewise a Levite, when he came to the place and saw him, passed by on the other side. But a Samaritan while traveling came near him; and when he saw him, he was moved with pity. He went to him and bandaged his wounds, having poured oil and wine on them. Then he put him on his own animal, brought him to an inn, and took care of him. The next day he took out two denarii, gave them to the innkeeper, and said, ‘Take care of him; and when I come back, I will repay you whatever more you spend.’ Which of these three, do you think, was a neighbour to the man who fell into the hands of the robbers?” He said, ‘The one who showed him mercy.’ Jesus said to him, ‘Go and do likewise.’”(Lk 10:25-37).
The context
57. This parable has to do with an age-old problem. Shortly after its account of the creation of the world and of man, the Bible takes up the issue of human relationships. Cain kills his brother Abel and then hears God ask: “Where is your brother Abel?” (Gen 4:9). His answer is one that we ourselves all too often give: “Am I my brother’s keeper?” (ibid.). By the very question he asks, God leaves no room for an appeal to determinism or fatalism as a justification for our own indifference. Instead, he encourages us to create a different culture, in which we resolve our conflicts and care for one another.
58. The Book of Job sees our origin in the one Creator as the basis of certain common rights: “Did not he who made me in the womb also make him? And did not the same one fashion us in the womb?” (Job 31:15). Many centuries later, Saint Irenaeus would use the image of a melody to make the same point: “One who seeks the truth should not concentrate on the differences between one note and another, thinking as if each was created separately and apart from the others; instead, he should realize that one and the same person composed the entire melody”.[54]
59. In earlier Jewish traditions, the imperative to love and care for others appears to have been limited to relationships between members of the same nation. The ancient commandment to “love your neighbour as yourself” (Lev 19:18) was usually understood as referring to one’s fellow citizens, yet the boundaries gradually expanded, especially in the Judaism that developed outside of the land of Israel. We encounter the command not to do to others what you would not want them to do to you (cf. Tob 4:15). In the first century before Christ, Rabbi Hillel stated: “This is the entire Torah. Everything else is commentary”.[55] The desire to imitate God’s own way of acting gradually replaced the tendency to think only of those nearest us: “The compassion of man is for his neighbour, but the compassion of the Lord is for all living beings” (Sir 18:13).
60. In the New Testament, Hillel’s precept was expressed in positive terms: “In everything, do to others as you would have them do to you; for this is the law and the prophets” (Mt 7:12). This command is universal in scope, embracing everyone on the basis of our shared humanity, since the heavenly Father “makes his sun rise on the evil and on the good” (Mt 5:45). Hence the summons to “be merciful, just as your Father is merciful” (Lk 6:36).
61. In the oldest texts of the Bible, we find a reason why our hearts should expand to embrace the foreigner. It derives from the enduring memory of the Jewish people that they themselves had once lived as foreigners in Egypt:
“You shall not wrong or oppress a stranger, for you were strangers in the land of Egypt” (Ex 22:21).
“You shall not oppress a stranger; you know the heart of a stranger, for you were strangers in the land of Egypt” (Ex 23:9).
“When a stranger resides with you in your land, you shall not do him wrong. The stranger who resides with you shall be to you as the citizen among you; you shall love the stranger as yourself, for you were strangers in the land of Egypt” (Lev 19:33-34).
“When you gather the grapes of your vineyard, do not glean what is left; it shall be for the sojourner, the orphan, and the widow. Remember that you were a slave in the land of Egypt” (Deut 24:21-22).
The call to fraternal love echoes throughout the New Testament:
“For the whole law is summed up in a single commandment, ‘You shall love your neighbour as yourself’” (Gal 5:14).
“Whoever loves a brother or sister lives in the light, and in such a person there is no cause for stumbling. But whoever hates another believer is in the darkness” (1 Jn 2:10-11).
“We know that we have passed from death to life because we love one another. Whoever does not love abides in death” (1 Jn 3:14).
“Those who do not love a brother or sister whom they have seen, cannot love God whom they have not seen” (1 Jn 4:20).
62. Yet this call to love could be misunderstood. Saint Paul, recognizing the temptation of the earliest Christian communities to form closed and isolated groups, urged his disciples to abound in love “for one another and for all” (1 Thess 3:12). In the Johannine community, fellow Christians were to be welcomed, “even though they are strangers to you” (3 Jn 5). In this context, we can better understand the significance of the parable of the Good Samaritan: love does not care if a brother or sister in need comes from one place or another. For “love shatters the chains that keep us isolated and separate; in their place, it builds bridges. Love enables us to create one great family, where all of us can feel at home… Love exudes compassion and dignity”.[56]
Abandoned on the wayside
63. Jesus tells the story of a man assaulted by thieves and lying injured on the wayside. Several persons passed him by, but failed to stop. These were people holding important social positions, yet lacking in real concern for the common good. They would not waste a couple of minutes caring for the injured man, or even in calling for help. Only one person stopped, approached the man and cared for him personally, even spending his own money to provide for his needs. He also gave him something that in our frenetic world we cling to tightly: he gave him his time. Certainly, he had his own plans for that day, his own needs, commitments and desires. Yet he was able to put all that aside when confronted with someone in need. Without even knowing the injured man, he saw him as deserving of his time and attention.
64. Which of these persons do you identify with? This question, blunt as it is, is direct and incisive. Which of these characters do you resemble? We need to acknowledge that we are constantly tempted to ignore others, especially the weak. Let us admit that, for all the progress we have made, we are still “illiterate” when it comes to accompanying, caring for and supporting the most frail and vulnerable members of our developed societies. We have become accustomed to looking the other way, passing by, ignoring situations until they affect us directly.
65. Someone is assaulted on our streets, and many hurry off as if they did not notice. People hit someone with their car and then flee the scene. Their only desire is to avoid problems; it does not matter that, through their fault, another person could die. All these are signs of an approach to life that is spreading in various and subtle ways. What is more, caught up as we are with our own needs, the sight of a person who is suffering disturbs us. It makes us uneasy, since we have no time to waste on other people’s problems. These are symptoms of an unhealthy society. A society that seeks prosperity but turns its back on suffering.
66. May we not sink to such depths! Let us look to the example of the Good Samaritan. Jesus’ parable summons us to rediscover our vocation as citizens of our respective nations and of the entire world, builders of a new social bond. This summons is ever new, yet it is grounded in a fundamental law of our being: we are called to direct society to the pursuit of the common good and, with this purpose in mind, to persevere in consolidating its political and social order, its fabric of relations, its human goals. By his actions, the Good Samaritan showed that “the existence of each and every individual is deeply tied to that of others: life is not simply time that passes; life is a time for interactions”.[57]
67. The parable eloquently presents the basic decision we need to make in order to rebuild our wounded world. In the face of so much pain and suffering, our only course is to imitate the Good Samaritan. Any other decision would make us either one of the robbers or one of those who walked by without showing compassion for the sufferings of the man on the roadside. The parable shows us how a community can be rebuilt by men and women who identify with the vulnerability of others, who reject the creation of a society of exclusion, and act instead as neighbours, lifting up and rehabilitating the fallen for the sake of the common good. At the same time, it warns us about the attitude of those who think only of themselves and fail to shoulder the inevitable responsibilities of life as it is.
68. The parable clearly does not indulge in abstract moralizing, nor is its message merely social and ethical. It speaks to us of an essential and often forgotten aspect of our common humanity: we were created for a fulfilment that can only be found in love. We cannot be indifferent to suffering; we cannot allow anyone to go through life as an outcast. Instead, we should feel indignant, challenged to emerge from our comfortable isolation and to be changed by our contact with human suffering. That is the meaning of dignity.
A story constantly retold
69. The parable is clear and straightforward, yet it also evokes the interior struggle that each of us experiences as we gradually come to know ourselves through our relationships with our brothers and sisters. Sooner or later, we will all encounter a person who is suffering. Today there are more and more of them. The decision to include or exclude those lying wounded along the roadside can serve as a criterion for judging every economic, political, social and religious project. Each day we have to decide whether to be Good Samaritans or indifferent bystanders. And if we extend our gaze to the history of our own lives and that of the entire world, all of us are, or have been, like each of the characters in the parable. All of us have in ourselves something of the wounded man, something of the robber, something of the passers-by, and something of the Good Samaritan.
70. It is remarkable how the various characters in the story change, once confronted by the painful sight of the poor man on the roadside. The distinctions between Judean and Samaritan, priest and merchant, fade into insignificance. Now there are only two kinds of people: those who care for someone who is hurting and those who pass by; those who bend down to help and those who look the other way and hurry off. Here, all our distinctions, labels and masks fall away: it is the moment of truth. Will we bend down to touch and heal the wounds of others? Will we bend down and help another to get up? This is today’s challenge, and we should not be afraid to face it. In moments of crisis, decisions become urgent. It could be said that, here and now, anyone who is neither a robber nor a passer-by is either injured himself or bearing an injured person on his shoulders.
71. The story of the Good Samaritan is constantly being repeated. We can see this clearly as social and political inertia is turning many parts of our world into a desolate byway, even as domestic and international disputes and the robbing of opportunities are leaving great numbers of the marginalized stranded on the roadside. In his parable, Jesus does not offer alternatives; he does not ask what might have happened had the injured man or the one who helped him yielded to anger or a thirst for revenge. Jesus trusts in the best of the human spirit; with this parable, he encourages us to persevere in love, to restore dignity to the suffering and to build a society worthy of the name.
The characters of the story
72. The parable begins with the robbers. Jesus chose to start when the robbery has already taken place, lest we dwell on the crime itself or the thieves who committed it. Yet we know them well. We have seen, descending on our world, the dark shadows of neglect and violence in the service of petty interests of power, gain and division. The real question is this: will we abandon the injured man and run to take refuge from the violence, or will we pursue the thieves? Will the wounded man end up being the justification for our irreconcilable divisions, our cruel indifference, our intestine conflicts?
73. The parable then asks us to take a closer look at the passers-by. The nervous indifference that makes them pass to the other side of the road – whether innocently or not, whether the result of disdain or mere distraction – makes the priest and the Levite a sad reflection of the growing gulf between ourselves and the world around us. There are many ways to pass by at a safe distance: we can retreat inwards, ignore others, or be indifferent to their plight. Or simply look elsewhere, as in some countries, or certain sectors of them, where contempt is shown for the poor and their culture, and one looks the other way, as if a development plan imported from without could edge them out. This is how some justify their indifference: the poor, whose pleas for help might touch their hearts, simply do not exist. The poor are beyond the scope of their interest.
74. One detail about the passers-by does stand out: they were religious, devoted to the worship of God: a priest and a Levite. This detail should not be overlooked. It shows that belief in God and the worship of God are not enough to ensure that we are actually living in a way pleasing to God. A believer may be untrue to everything that his faith demands of him, and yet think he is close to God and better than others. The guarantee of an authentic openness to God, on the other hand, is a way of practising the faith that helps open our hearts to our brothers and sisters. Saint John Chrysostom expressed this pointedly when he challenged his Christian hearers: “Do you wish to honour the body of the Saviour? Do not despise it when it is naked. Do not honour it in church with silk vestments while outside it is naked and numb with cold”.[58] Paradoxically, those who claim to be unbelievers can sometimes put God’s will into practice better than believers.
75. “Robbers” usually find secret allies in those who “pass by and look the other way”. There is a certain interplay between those who manipulate and cheat society, and those who, while claiming to be detached and impartial critics, live off that system and its benefits. There is a sad hypocrisy when the impunity of crime, the use of institutions for personal or corporate gain, and other evils apparently impossible to eradicate, are accompanied by a relentless criticism of everything, a constant sowing of suspicion that results in distrust and confusion. The complaint that “everything is broken” is answered by the claim that “it can’t be fixed”, or “what can I do?” This feeds into disillusionment and despair, and hardly encourages a spirit of solidarity and generosity. Plunging people into despair closes a perfectly perverse circle: such is the agenda of the invisible dictatorship of hidden interests that have gained mastery over both resources and the possibility of thinking and expressing opinions.
76. Let us turn at last to the injured man. There are times when we feel like him, badly hurt and left on side of the road. We can also feel helpless because our institutions are neglected and lack resources, or simply serve the interests of a few, without and within. Indeed, “globalized society often has an elegant way of shifting its gaze. Under the guise of being politically correct or ideologically fashionable, we look at those who suffer without touching them. We televise live pictures of them, even speaking about them with euphemisms and with apparent tolerance”.[59]
Starting anew
77. Each day offers us a new opportunity, a new possibility. We should not expect everything from those who govern us, for that would be childish. We have the space we need for co-responsibility in creating and putting into place new processes and changes. Let us take an active part in renewing and supporting our troubled societies. Today we have a great opportunity to express our innate sense of fraternity, to be Good Samaritans who bear the pain of other people’s troubles rather than fomenting greater hatred and resentment. Like the chance traveller in the parable, we need only have a pure and simple desire to be a people, a community, constant and tireless in the effort to include, integrate and lift up the fallen. We may often find ourselves succumbing to the mentality of the violent, the blindly ambitious, those who spread mistrust and lies. Others may continue to view politics or the economy as an arena for their own power plays. For our part, let us foster what is good and place ourselves at its service.
78. We can start from below and, case by case, act at the most concrete and local levels, and then expand to the farthest reaches of our countries and our world, with the same care and concern that the Samaritan showed for each of the wounded man’s injuries. Let us seek out others and embrace the world as it is, without fear of pain or a sense of inadequacy, because there we will discover all the goodness that God has planted in human hearts. Difficulties that seem overwhelming are opportunities for growth, not excuses for a glum resignation that can lead only to acquiescence. Yet let us not do this alone, as individuals. The Samaritan discovered an innkeeper who would care for the man; we too are called to unite as a family that is stronger than the sum of small individual members. For “the whole is greater than the part, but it is also greater than the sum of its parts”.[60] Let us renounce the pettiness and resentment of useless in-fighting and constant confrontation. Let us stop feeling sorry for ourselves and acknowledge our crimes, our apathy, our lies. Reparation and reconciliation will give us new life and set us all free from fear.
79. The Samaritan who stopped along the way departed without expecting any recognition or gratitude. His effort to assist another person gave him great satisfaction in life and before his God, and thus became a duty. All of us have a responsibility for the wounded, those of our own people and all the peoples of the earth. Let us care for the needs of every man and woman, young and old, with the same fraternal spirit of care and closeness that marked the Good Samaritan.
Neighbours without borders
80. Jesus told the parable of the Good Samaritan in answer to the question: Who is my neighbour? The word “neighbour”, in the society of Jesus’ time, usually meant those nearest us. It was felt that help should be given primarily to those of one’s own group and race. For some Jews of that time, Samaritans were looked down upon, considered impure. They were not among those to be helped. Jesus, himself a Jew, completely transforms this approach. He asks us not to decide who is close enough to be our neighbour, but rather that we ourselves become neighbours to all.
81. Jesus asks us to be present to those in need of help, regardless of whether or not they belong to our social group. In this case, the Samaritan became a neighbour to the wounded Judean. By approaching and making himself present, he crossed all cultural and historical barriers. Jesus concludes the parable by saying: “Go and do likewise” (Lk 10:37). In other words, he challenges us to put aside all differences and, in the face of suffering, to draw near to others with no questions asked. I should no longer say that I have neighbours to help, but that I must myself be a neighbour to others.
82. The parable, though, is troubling, for Jesus says that that the wounded man was a Judean, while the one who stopped and helped him was a Samaritan. This detail is quite significant for our reflection on a love that includes everyone. The Samaritans lived in a region where pagan rites were practised. For the Jews, this made them impure, detestable, dangerous. In fact, one ancient Jewish text referring to nations that were hated, speaks of Samaria as “not even a people” (Sir 50:25); it also refers to “the foolish people that live in Shechem” (50:26).
83. This explains why a Samaritan woman, when asked by Jesus for a drink, answered curtly: “How is it that you, a Jew, ask a drink of me, a woman of Samaria?” (Jn 4:9). The most offensive charge that those who sought to discredit Jesus could bring was that he was “possessed” and “a Samaritan” (Jn 8:48). So this encounter of mercy between a Samaritan and a Jew is highly provocative; it leaves no room for ideological manipulation and challenges us to expand our frontiers. It gives a universal dimension to our call to love, one that transcends all prejudices, all historical and cultural barriers, all petty interests.
The plea of the stranger
84. Finally, I would note that in another passage of the Gospel Jesus says: “I was a stranger and you welcomed me” (Mt 25:35). Jesus could speak those words because he had an open heart, sensitive to the difficulties of others. Saint Paul urges us to “rejoice with those who rejoice, weep with those who weep” (Rom 12:15). When our hearts do this, they are capable of identifying with others without worrying about where they were born or come from. In the process, we come to experience others as our “own flesh” (Is 58:7).
85. For Christians, the words of Jesus have an even deeper meaning. They compel us to recognize Christ himself in each of our abandoned or excluded brothers and sisters (cf. Mt 25:40.45). Faith has untold power to inspire and sustain our respect for others, for believers come to know that God loves every man and woman with infinite love and “thereby confers infinite dignity” upon all humanity.[61] We likewise believe that Christ shed his blood for each of us and that no one is beyond the scope of his universal love. If we go to the ultimate source of that love which is the very life of the triune God, we encounter in the community of the three divine Persons the origin and perfect model of all life in society. Theology continues to be enriched by its reflection on this great truth.
86. I sometimes wonder why, in light of this, it took so long for the Church unequivocally to condemn slavery and various forms of violence. Today, with our developed spirituality and theology, we have no excuses. Still, there are those who appear to feel encouraged or at least permitted by their faith to support varieties of narrow and violent nationalism, xenophobia and contempt, and even the mistreatment of those who are different. Faith, and the humanism it inspires, must maintain a critical sense in the face of these tendencies, and prompt an immediate response whenever they rear their head. For this reason, it is important that catechesis and preaching speak more directly and clearly about the social meaning of existence, the fraternal dimension of spirituality, our conviction of the inalienable dignity of each person, and our reasons for loving and accepting all our brothers and sisters.
ENVISAGING AND ENGENDERING AN OPEN WORLD
87. Human beings are so made that they cannot live, develop and find fulfilment except “in the sincere gift of self to others”.[62] Nor can they fully know themselves apart from an encounter with other persons: “I communicate effectively with myself only insofar as I communicate with others”.[63] No one can experience the true beauty of life without relating to others, without having real faces to love. This is part of the mystery of authentic human existence. “Life exists where there is bonding, communion, fraternity; and life is stronger than death when it is built on true relationships and bonds of fidelity. On the contrary, there is no life when we claim to be self-sufficient and live as islands: in these attitudes, death prevails”.[64]
88. In the depths of every heart, love creates bonds and expands existence, for it draws people out of themselves and towards others.[65] Since we were made for love, in each one of us “a law of ekstasis” seems to operate: “the lover ‘goes outside’ the self to find a fuller existence in another”.[66] For this reason, “man always has to take up the challenge of moving beyond himself”.[67]
89. Nor can I reduce my life to relationships with a small group, even my own family; I cannot know myself apart from a broader network of relationships, including those that have preceded me and shaped my entire life. My relationship with those whom I respect has to take account of the fact that they do not live only for me, nor do I live only for them. Our relationships, if healthy and authentic, open us to others who expand and enrich us. Nowadays, our noblest social instincts can easily be thwarted by self-centred chats that give the impression of being deep relationships. On the contrary, authentic and mature love and true friendship can only take root in hearts open to growth through relationships with others. As couples or friends, we find that our hearts expand as we step out of ourselves and embrace others. Closed groups and self-absorbed couples that define themselves in opposition to others tend to be expressions of selfishness and mere self-preservation.
90. Significantly, many small communities living in desert areas developed a remarkable system of welcoming pilgrims as an exercise of the sacred duty of hospitality. The medieval monastic communities did likewise, as we see from the Rule of Saint Benedict. While acknowledging that it might detract from the discipline and silence of monasteries, Benedict nonetheless insisted that “the poor and pilgrims be treated with the utmost care and attention”.[68] Hospitality was one specific way of rising to the challenge and the gift present in an encounter with those outside one’s own circle. The monks realized that the values they sought to cultivate had to be accompanied by a readiness to move beyond themselves in openness to others.
The unique value of love
91. People can develop certain habits that might appear as moral values: fortitude, sobriety, hard work and similar virtues. Yet if the acts of the various moral virtues are to be rightly directed, one needs to take into account the extent to which they foster openness and union with others. That is made possible by the charity that God infuses. Without charity, we may perhaps possess only apparent virtues, incapable of sustaining life in common. Thus, Saint Thomas Aquinas could say – quoting Saint Augustine – that the temperance of a greedy person is in no way virtuous.[69] Saint Bonaventure, for his part, explained that the other virtues, without charity, strictly speaking do not fulfil the commandments “the way God wants them to be fulfilled”.[70]
92. The spiritual stature of a person’s life is measured by love, which in the end remains “the criterion for the definitive decision about a human life’s worth or lack thereof”.[71] Yet some believers think that it consists in the imposition of their own ideologies upon everyone else, or in a violent defence of the truth, or in impressive demonstrations of strength. All of us, as believers, need to recognize that love takes first place: love must never be put at risk, and the greatest danger lies in failing to love (cf. 1 Cor 13:1-13).
93. Saint Thomas Aquinas sought to describe the love made possible by God’s grace as a movement outwards towards another, whereby we consider “the beloved as somehow united to ourselves”.[72] Our affection for others makes us freely desire to seek their good. All this originates in a sense of esteem, an appreciation of the value of the other. This is ultimately the idea behind the word “charity”: those who are loved are “dear” to me; “they are considered of great value”.[73] And “the love whereby someone becomes pleasing (grata) to another is the reason why the latter bestows something on him freely (gratis)”.[74]
94. Love, then, is more than just a series of benevolent actions. Those actions have their source in a union increasingly directed towards others, considering them of value, worthy, pleasing and beautiful apart from their physical or moral appearances. Our love for others, for who they are, moves us to seek the best for their lives. Only by cultivating this way of relating to one another will we make possible a social friendship that excludes no one and a fraternity that is open to all.
95. Love also impels us towards universal communion. No one can mature or find fulfilment by withdrawing from others. By its very nature, love calls for growth in openness and the ability to accept others as part of a continuing adventure that makes every periphery converge in a greater sense of mutual belonging. As Jesus told us: “You are all brothers” (Mt 23:8).
96. This need to transcend our own limitations also applies to different regions and countries. Indeed, “the ever-increasing number of interconnections and communications in today’s world makes us powerfully aware of the unity and common destiny of the nations. In the dynamics of history, and in the diversity of ethnic groups, societies and cultures, we see the seeds of a vocation to form a community composed of brothers and sisters who accept and care for one another”.[75]
Open societies that integrate everyone
97. Some peripheries are close to us, in city centres or within our families. Hence there is an aspect of universal openness in love that is existential rather than geographical. It has to do with our daily efforts to expand our circle of friends, to reach those who, even though they are close to me, I do not naturally consider a part of my circle of interests. Every brother or sister in need, when abandoned or ignored by the society in which I live, becomes an existential foreigner, even though born in the same country. They may be citizens with full rights, yet they are treated like foreigners in their own country. Racism is a virus that quickly mutates and, instead of disappearing, goes into hiding, and lurks in waiting.
98. I would like to mention some of those “hidden exiles” who are treated as foreign bodies in society.[76] Many persons with disabilities “feel that they exist without belonging and without participating”. Much still prevents them from being fully enfranchised. Our concern should be not only to care for them but to ensure their “active participation in the civil and ecclesial community. That is a demanding and even tiring process, yet one that will gradually contribute to the formation of consciences capable of acknowledging each individual as a unique and unrepeatable person”. I think, too, of “the elderly who, also due to their disability, are sometimes considered a burden”. Yet each of them is able to offer “a unique contribution to the common good through their remarkable life stories”. Let me repeat: we need to have “the courage to give a voice to those who are discriminated against due to their disability, because sadly, in some countries even today, people find it hard to acknowledge them as persons of equal dignity”.[77]
Inadequate understandings of universal love
99. A love capable of transcending borders is the basis of what in every city and country can be called “social friendship”. Genuine social friendship within a society makes true universal openness possible. This is a far cry from the false universalism of those who constantly travel abroad because they cannot tolerate or love their own people. Those who look down on their own people tend to create within society categories of first and second class, people of greater or lesser dignity, people enjoying greater or fewer rights. In this way, they deny that there is room for everybody.
100. I am certainly not proposing an authoritarian and abstract universalism, devised or planned by a small group and presented as an ideal for the sake of levelling, dominating and plundering. One model of globalization in fact “consciously aims at a one-dimensional uniformity and seeks to eliminate all differences and traditions in a superficial quest for unity… If a certain kind of globalization claims to make everyone uniform, to level everyone out, that globalization destroys the rich gifts and uniqueness of each person and each people”.[78] This false universalism ends up depriving the world of its various colours, its beauty and, ultimately, its humanity. For “the future is not monochrome; if we are courageous, we can contemplate it in all the variety and diversity of what each individual person has to offer. How much our human family needs to learn to live together in harmony and peace, without all of us having to be the same!”[79]
BEYOND A WORLD OF “ASSOCIATES”
101. Let us now return to the parable of the Good Samaritan, for it still has much to say to us. An injured man lay on the roadside. The people walking by him did not heed their interior summons to act as neighbours; they were concerned with their duties, their social status, their professional position within society. They considered themselves important for the society of the time, and were anxious to play their proper part. The man on the roadside, bruised and abandoned, was a distraction, an interruption from all that; in any event, he was hardly important. He was a “nobody”, undistinguished, irrelevant to their plans for the future. The Good Samaritan transcended these narrow classifications. He himself did not fit into any of those categories; he was simply a foreigner without a place in society. Free of every label and position, he was able to interrupt his journey, change his plans, and unexpectedly come to the aid of an injured person who needed his help.
102. What would be the reaction to that same story nowadays, in a world that constantly witnesses the emergence and growth of social groups clinging to an identity that separates them from others? How would it affect those who organize themselves in a way that prevents any foreign presence that might threaten their identity and their closed and self-referential structures? There, even the possibility of acting as a neighbour is excluded; one is a neighbour only to those who serve their purpose. The word “neighbour” loses all meaning; there can only be “associates”, partners in the pursuit of particular interests.[80]
Liberty, equality and fraternity
103. Fraternity is born not only of a climate of respect for individual liberties, or even of a certain administratively guaranteed equality. Fraternity necessarily calls for something greater, which in turn enhances freedom and equality. What happens when fraternity is not consciously cultivated, when there is a lack of political will to promote it through education in fraternity, through dialogue and through the recognition of the values of reciprocity and mutual enrichment? Liberty becomes nothing more than a condition for living as we will, completely free to choose to whom or what we will belong, or simply to possess or exploit. This shallow understanding has little to do with the richness of a liberty directed above all to love.
104. Nor is equality achieved by an abstract proclamation that “all men and women are equal”. Instead, it is the result of the conscious and careful cultivation of fraternity. Those capable only of being “associates” create closed worlds. Within that framework, what place is there for those who are not part of one’s group of associates, yet long for a better life for themselves and their families?
105. Individualism does not make us more free, more equal, more fraternal. The mere sum of individual interests is not capable of generating a better world for the whole human family. Nor can it save us from the many ills that are now increasingly globalized. Radical individualism is a virus that is extremely difficult to eliminate, for it is clever. It makes us believe that everything consists in giving free rein to our own ambitions, as if by pursuing ever greater ambitions and creating safety nets we would somehow be serving the common good.
A UNIVERSAL LOVE THAT PROMOTES PERSONS
106. Social friendship and universal fraternity necessarily call for an acknowledgement of the worth of every human person, always and everywhere. If each individual is of such great worth, it must be stated clearly and firmly that “the mere fact that some people are born in places with fewer resources or less development does not justify the fact that they are living with less dignity”.[81] This is a basic principle of social life that tends to be ignored in a variety of ways by those who sense that it does not fit into their worldview or serve their purposes.
107. Every human being has the right to live with dignity and to develop integrally; this fundamental right cannot be denied by any country. People have this right even if they are unproductive, or were born with or developed limitations. This does not detract from their great dignity as human persons, a dignity based not on circumstances but on the intrinsic worth of their being. Unless this basic principle is upheld, there will be no future either for fraternity or for the survival of humanity.
108. Some societies accept this principle in part. They agree that opportunities should be available to everyone, but then go on to say that everything depends on the individual. From this skewed perspective, it would be pointless “to favour an investment in efforts to help the slow, the weak or the less talented to find opportunities in life”.[82] Investments in assistance to the vulnerable could prove unprofitable; they might make things less efficient. No. What we need in fact are states and civil institutions that are present and active, that look beyond the free and efficient working of certain economic, political or ideological systems, and are primarily concerned with individuals and the common good.
109. Some people are born into economically stable families, receive a fine education, grow up well nourished, or naturally possess great talent. They will certainly not need a proactive state; they need only claim their freedom. Yet the same rule clearly does not apply to a disabled person, to someone born in dire poverty, to those lacking a good education and with little access to adequate health care. If a society is governed primarily by the criteria of market freedom and efficiency, there is no place for such persons, and fraternity will remain just another vague ideal.
110. Indeed, “to claim economic freedom while real conditions bar many people from actual access to it, and while possibilities for employment continue to shrink, is to practise doublespeak”.[83] Words like freedom, democracy or fraternity prove meaningless, for the fact is that “only when our economic and social system no longer produces even a single victim, a single person cast aside, will we be able to celebrate the feast of universal fraternity”.[84] A truly human and fraternal society will be capable of ensuring in an efficient and stable way that each of its members is accompanied at every stage of life. Not only by providing for their basic needs, but by enabling them to give the best of themselves, even though their performance may be less than optimum, their pace slow or their efficiency limited.
111. The human person, with his or her inalienable rights, is by nature open to relationship. Implanted deep within us is the call to transcend ourselves through an encounter with others. For this reason, “care must be taken not to fall into certain errors which can arise from a misunderstanding of the concept of human rights and from its misuse. Today there is a tendency to claim ever broader individual – I am tempted to say individualistic – rights. Underlying this is a conception of the human person as detached from all social and anthropological contexts, as if the person were a “monad” (monás), increasingly unconcerned with others… Unless the rights of each individual are harmoniously ordered to the greater good, those rights will end up being considered limitless and consequently will become a source of conflicts and violence”.[85]
112. Nor can we fail to mention that seeking and pursuing the good of others and of the entire human family also implies helping individuals and societies to mature in the moral values that foster integral human development. The New Testament describes one fruit of the Holy Spirit (cf. Gal 5:22) as agathosyne; the Greek word expresses attachment to the good, pursuit of the good. Even more, it suggests a striving for excellence and what is best for others, their growth in maturity and health, the cultivation of values and not simply material wellbeing. A similar expression exists in Latin: benevolentia. This is an attitude that “wills the good” of others; it bespeaks a yearning for goodness, an inclination towards all that is fine and excellent, a desire to fill the lives of others with what is beautiful, sublime and edifying.
113. Here, regrettably, I feel bound to reiterate that “we have had enough of immorality and the mockery of ethics, goodness, faith and honesty. It is time to acknowledge that light-hearted superficiality has done us no good. Once the foundations of social life are corroded, what ensues are battles over conflicting interests”.[86] Let us return to promoting the good, for ourselves and for the whole human family, and thus advance together towards an authentic and integral growth. Every society needs to ensure that values are passed on; otherwise, what is handed down are selfishness, violence, corruption in its various forms, indifference and, ultimately, a life closed to transcendence and entrenched in individual interests.
The value of solidarity
114. I would like especially to mention solidarity, which, “as a moral virtue and social attitude born of personal conversion, calls for commitment on the part of those responsible for education and formation. I think first of families, called to a primary and vital mission of education. Families are the first place where the values of love and fraternity, togetherness and sharing, concern and care for others are lived out and handed on. They are also the privileged milieu for transmitting the faith, beginning with those first simple gestures of devotion which mothers teach their children. Teachers, who have the challenging task of training children and youth in schools or other settings, should be conscious that their responsibility extends also to the moral, spiritual and social aspects of life. The values of freedom, mutual respect and solidarity can be handed on from a tender age… Communicators also have a responsibility for education and formation, especially nowadays, when the means of information and communication are so widespread”.[87]
115. At a time when everything seems to disintegrate and lose consistency, it is good for us to appeal to the “solidity”[88] born of the consciousness that we are responsible for the fragility of others as we strive to build a common future. Solidarity finds concrete expression in service, which can take a variety of forms in an effort to care for others. And service in great part means “caring for vulnerability, for the vulnerable members of our families, our society, our people”. In offering such service, individuals learn to “set aside their own wishes and desires, their pursuit of power, before the concrete gaze of those who are most vulnerable… Service always looks to their faces, touches their flesh, senses their closeness and even, in some cases, ‘suffers’ that closeness and tries to help them. Service is never ideological, for we do not serve ideas, we serve people”.[89]
116. The needy generally “practise the special solidarity that exists among those who are poor and suffering, and which our civilization seems to have forgotten or would prefer in fact to forget. Solidarity is a word that is not always well received; in certain situations, it has become a dirty word, a word that dare not be said. Solidarity means much more than engaging in sporadic acts of generosity. It means thinking and acting in terms of community. It means that the lives of all are prior to the appropriation of goods by a few. It also means combatting the structural causes of poverty, inequality, the lack of work, land and housing, the denial of social and labour rights. It means confronting the destructive effects of the empire of money… Solidarity, understood in its most profound meaning, is a way of making history, and this is what popular movements are doing”.[90]
117. When we speak of the need to care for our common home, our planet, we appeal to that spark of universal consciousness and mutual concern that may still be present in people’s hearts. Those who enjoy a surplus of water yet choose to conserve it for the sake of the greater human family have attained a moral stature that allows them to look beyond themselves and the group to which they belong. How marvellously human! The same attitude is demanded if we are to recognize the rights of all people, even those born beyond our own borders.
RE-ENVISAGING THE SOCIAL ROLE OF PROPERTY
118. The world exists for everyone, because all of us were born with the same dignity. Differences of colour, religion, talent, place of birth or residence, and so many others, cannot be used to justify the privileges of some over the rights of all. As a community, we have an obligation to ensure that every person lives with dignity and has sufficient opportunities for his or her integral development.
119. In the first Christian centuries, a number of thinkers developed a universal vision in their reflections on the common destination of created goods.[91] This led them to realize that if one person lacks what is necessary to live with dignity, it is because another person is detaining it. Saint John Chrysostom summarizes it in this way: “Not to share our wealth with the poor is to rob them and take away their livelihood. The riches we possess are not our own, but theirs as well”.[92] In the words of Saint Gregory the Great, “When we provide the needy with their basic needs, we are giving them what belongs to them, not to us”.[93]
120. Once more, I would like to echo a statement of Saint John Paul II whose forcefulness has perhaps been insufficiently recognized: “God gave the earth to the whole human race for the sustenance of all its members, without excluding or favouring anyone”.[94] For my part, I would observe that “the Christian tradition has never recognized the right to private property as absolute or inviolable, and has stressed the social purpose of all forms of private property”.[95] The principle of the common use of created goods is the “first principle of the whole ethical and social order”;[96] it is a natural and inherent right that takes priority over others.[97] All other rights having to do with the goods necessary for the integral fulfilment of persons, including that of private property or any other type of property, should – in the words of Saint Paul VI – “in no way hinder [this right], but should actively facilitate its implementation”.[98] The right to private property can only be considered a secondary natural right, derived from the principle of the universal destination of created goods. This has concrete consequences that ought to be reflected in the workings of society. Yet it often happens that secondary rights displace primary and overriding rights, in practice making them irrelevant.
Rights without borders
121. No one, then, can remain excluded because of his or her place of birth, much less because of privileges enjoyed by others who were born in lands of greater opportunity. The limits and borders of individual states cannot stand in the way of this. As it is unacceptable that some have fewer rights by virtue of being women, it is likewise unacceptable that the mere place of one’s birth or residence should result in his or her possessing fewer opportunities for a developed and dignified life.
122. Development must not aim at the amassing of wealth by a few, but must ensure “human rights – personal and social, economic and political, including the rights of nations and of peoples”.[99] The right of some to free enterprise or market freedom cannot supersede the rights of peoples and the dignity of the poor, or, for that matter, respect for the natural environment, for “if we make something our own, it is only to administer it for the good of all”.[100]
123. Business activity is essentially “a noble vocation, directed to producing wealth and improving our world”.[101] God encourages us to develop the talents he gave us, and he has made our universe one of immense potential. In God’s plan, each individual is called to promote his or her own development,[102] and this includes finding the best economic and technological means of multiplying goods and increasing wealth. Business abilities, which are a gift from God, should always be clearly directed to the development of others and to eliminating poverty, especially through the creation of diversified work opportunities. The right to private property is always accompanied by the primary and prior principle of the subordination of all private property to the universal destination of the earth’s goods, and thus the right of all to their use.[103]
The rights of peoples
124. Nowadays, a firm belief in the common destination of the earth’s goods requires that this principle also be applied to nations, their territories and their resources. Seen from the standpoint not only of the legitimacy of private property and the rights of its citizens, but also of the first principle of the common destination of goods, we can then say that each country also belongs to the foreigner, inasmuch as a territory’s goods must not be denied to a needy person coming from elsewhere. As the Bishops of the United States have taught, there are fundamental rights that “precede any society because they flow from the dignity granted to each person as created by God”.[104]
125. This presupposes a different way of understanding relations and exchanges between countries. If every human being possesses an inalienable dignity, if all people are my brothers and sisters, and if the world truly belongs to everyone, then it matters little whether my neighbour was born in my country or elsewhere. My own country also shares responsibility for his or her development, although it can fulfil that responsibility in a variety of ways. It can offer a generous welcome to those in urgent need, or work to improve living conditions in their native lands by refusing to exploit those countries or to drain them of natural resources, backing corrupt systems that hinder the dignified development of their peoples. What applies to nations is true also for different regions within each country, since there too great inequalities often exist. At times, the inability to recognize equal human dignity leads the more developed regions in some countries to think that they can jettison the “dead weight” of poorer regions and so increase their level of consumption.
126. We are really speaking about a new network of international relations, since there is no way to resolve the serious problems of our world if we continue to think only in terms of mutual assistance between individuals or small groups. Nor should we forget that “inequity affects not only individuals but entire countries; it compels us to consider an ethics of international relations”.[105] Indeed, justice requires recognizing and respecting not only the rights of individuals, but also social rights and the rights of peoples.[106] This means finding a way to ensure “the fundamental right of peoples to subsistence and progress”,[107] a right which is at times severely restricted by the pressure created by foreign debt. In many instances, debt repayment not only fails to promote development but gravely limits and conditions it. While respecting the principle that all legitimately acquired debt must be repaid, the way in which many poor countries fulfil this obligation should not end up compromising their very existence and growth.
127. Certainly, all this calls for an alternative way of thinking. Without an attempt to enter into that way of thinking, what I am saying here will sound wildly unrealistic. On the other hand, if we accept the great principle that there are rights born of our inalienable human dignity, we can rise to the challenge of envisaging a new humanity. We can aspire to a world that provides land, housing and work for all. This is the true path of peace, not the senseless and myopic strategy of sowing fear and mistrust in the face of outside threats. For a real and lasting peace will only be possible “on the basis of a global ethic of solidarity and cooperation in the service of a future shaped by interdependence and shared responsibility in the whole human family”.[108]
A HEART OPEN TO THE WHOLE WORLD
128. If the conviction that all human beings are brothers and sisters is not to remain an abstract idea but to find concrete embodiment, then numerous related issues emerge, forcing us to see things in a new light and to develop new responses.
129. Complex challenges arise when our neighbour happens to be an immigrant.[109] Ideally, unnecessary migration ought to be avoided; this entails creating in countries of origin the conditions needed for a dignified life and integral development. Yet until substantial progress is made in achieving this goal, we are obliged to respect the right of all individuals to find a place that meets their basic needs and those of their families, and where they can find personal fulfilment. Our response to the arrival of migrating persons can be summarized by four words: welcome, protect, promote and integrate. For “it is not a case of implementing welfare programmes from the top down, but rather of undertaking a journey together, through these four actions, in order to build cities and countries that, while preserving their respective cultural and religious identity, are open to differences and know how to promote them in the spirit of human fraternity”.[110]
130. This implies taking certain indispensable steps, especially in response to those who are fleeing grave humanitarian crises. As examples, we may cite: increasing and simplifying the granting of visas; adopting programmes of individual and community sponsorship; opening humanitarian corridors for the most vulnerable refugees; providing suitable and dignified housing; guaranteeing personal security and access to basic services; ensuring adequate consular assistance and the right to retain personal identity documents; equitable access to the justice system; the possibility of opening bank accounts and the guarantee of the minimum needed to survive; freedom of movement and the possibility of employment; protecting minors and ensuring their regular access to education; providing for programmes of temporary guardianship or shelter; guaranteeing religious freedom; promoting integration into society; supporting the reuniting of families; and preparing local communities for the process of integration.[111]
131. For those who are not recent arrivals and already participate in the fabric of society, it is important to apply the concept of “citizenship”, which “is based on the equality of rights and duties, under which all enjoy justice. It is therefore crucial to establish in our societies the concept of full citizenship and to reject the discriminatory use of the term minorities, which engenders feelings of isolation and inferiority. Its misuse paves the way for hostility and discord; it undoes any successes and takes away the religious and civil rights of some citizens who are thus discriminated against”.[112]
132. Even when they take such essential steps, states are not able, on their own, to implement adequate solutions, “since the consequences of the decisions made by each inevitably have repercussions on the entire international community”. As a result, “our response can only be the fruit of a common effort”[113] to develop a form of global governance with regard to movements of migration. Thus, there is “a need for mid-term and long-term planning which is not limited to emergency responses. Such planning should include effective assistance for integrating migrants in their receiving countries, while also promoting the development of their countries of origin through policies inspired by solidarity, yet not linking assistance to ideological strategies and practices alien or contrary to the cultures of the peoples being assisted”.[114]
133. The arrival of those who are different, coming from other ways of life and cultures, can be a gift, for “the stories of migrants are always stories of an encounter between individuals and between cultures. For the communities and societies to which they come, migrants bring an opportunity for enrichment and the integral human development of all”.[115] For this reason, “I especially urge young people not to play into the hands of those who would set them against other young people, newly arrived in their countries, and who would encourage them to view the latter as a threat, and not possessed of the same inalienable dignity as every other human being”.[116]
134. Indeed, when we open our hearts to those who are different, this enables them, while continuing to be themselves, to develop in new ways. The different cultures that have flourished over the centuries need to be preserved, lest our world be impoverished. At the same time, those cultures should be encouraged to be open to new experiences through their encounter with other realities, for the risk of succumbing to cultural sclerosis is always present. That is why “we need to communicate with each other, to discover the gifts of each person, to promote that which unites us, and to regard our differences as an opportunity to grow in mutual respect. Patience and trust are called for in such dialogue, permitting individuals, families and communities to hand on the values of their own culture and welcome the good that comes from others’ experiences”.[117]
135. Here I would mention some examples that I have used in the past. Latino culture is “a ferment of values and possibilities that can greatly enrich the United States”, for “intense immigration always ends up influencing and transforming the culture of a place… In Argentina, intense immigration from Italy has left a mark on the culture of the society, and the presence of some 200,000 Jews has a great effect on the cultural ‘style’ of Buenos Aires. Immigrants, if they are helped to integrate, are a blessing, a source of enrichment and new gift that encourages a society to grow”.[118]
136. On an even broader scale, Grand Imam Ahmad Al-Tayyeb and I have observed that “good relations between East and West are indisputably necessary for both. They must not be neglected, so that each can be enriched by the other’s culture through fruitful exchange and dialogue. The West can discover in the East remedies for those spiritual and religious maladies that are caused by a prevailing materialism. And the East can find in the West many elements that can help free it from weakness, division, conflict and scientific, technical and cultural decline. It is important to pay attention to religious, cultural and historical differences that are a vital component in shaping the character, culture and civilization of the East. It is likewise important to reinforce the bond of fundamental human rights in order to help ensure a dignified life for all the men and women of East and West, avoiding the politics of double standards”.[119]
A fruitful exchange
137. Mutual assistance between countries proves enriching for each. A country that moves forward while remaining solidly grounded in its original cultural substratum is a treasure for the whole of humanity. We need to develop the awareness that nowadays we are either all saved together or no one is saved. Poverty, decadence and suffering in one part of the earth are a silent breeding ground for problems that will end up affecting the entire planet. If we are troubled by the extinction of certain species, we should be all the more troubled that in some parts of our world individuals or peoples are prevented from developing their potential and beauty by poverty or other structural limitations. In the end, this will impoverish us all.
138. Although this has always been true, never has it been more evident than in our own day, when the world is interconnected by globalization. We need to attain a global juridical, political and economic order “which can increase and give direction to international cooperation for the development of all peoples in solidarity”.[120] Ultimately, this will benefit the entire world, since “development aid for poor countries” implies “creating wealth for all”.[121] From the standpoint of integral development, this presupposes “giving poorer nations an effective voice in shared decision-making”[122] and the capacity to “facilitate access to the international market on the part of countries suffering from poverty and underdevelopment”.[123]
A gratuitousness open to others
139. Even so, I do not wish to limit this presentation to a kind of utilitarian approach. There is always the factor of “gratuitousness”: the ability to do some things simply because they are good in themselves, without concern for personal gain or recompense. Gratuitousness makes it possible for us to welcome the stranger, even though this brings us no immediate tangible benefit. Some countries, though, presume to accept only scientists or investors.
140. Life without fraternal gratuitousness becomes a form of frenetic commerce, in which we are constantly weighing up what we give and what we get back in return. God, on the other hand, gives freely, to the point of helping even those who are unfaithful; he “makes his sun rise on the evil and on the good” (Mt 5:45). There is a reason why Jesus told us: “When you give alms, do not let your right hand know what your left hand is doing, so that your alms may be in secret” (Mt 6:3-4). We received life freely; we paid nothing for it. Consequently, all of us are able to give without expecting anything in return, to do good to others without demanding that they treat us well in return. As Jesus told his disciples: “Without cost you have received, without cost you are to give” (Mt 10:8).
141. The true worth of the different countries of our world is measured by their ability to think not simply as a country but also as part of the larger human family. This is seen especially in times of crisis. Narrow forms of nationalism are an extreme expression of an inability to grasp the meaning of this gratuitousness. They err in thinking that they can develop on their own, heedless of the ruin of others, that by closing their doors to others they will be better protected. Immigrants are seen as usurpers who have nothing to offer. This leads to the simplistic belief that the poor are dangerous and useless, while the powerful are generous benefactors. Only a social and political culture that readily and “gratuitously” welcomes others will have a future.
142. It should be kept in mind that “an innate tension exists between globalization and localization. We need to pay attention to the global so as to avoid narrowness and banality. Yet we also need to look to the local, which keeps our feet on the ground. Together, the two prevent us from falling into one of two extremes. In the first, people get caught up in an abstract, globalized universe… In the other, they turn into a museum of local folklore, a world apart, doomed to doing the same things over and over, incapable of being challenged by novelty or appreciating the beauty which God bestows beyond their borders”.[124] We need to have a global outlook to save ourselves from petty provincialism. When our house stops being a home and starts to become an enclosure, a cell, then the global comes to our rescue, like a “final cause” that draws us towards our fulfilment. At the same time, though, the local has to be eagerly embraced, for it possesses something that the global does not: it is capable of being a leaven, of bringing enrichment, of sparking mechanisms of subsidiarity. Universal fraternity and social friendship are thus two inseparable and equally vital poles in every society. To separate them would be to disfigure each and to create a dangerous polarization.
Local flavour
143. The solution is not an openness that spurns its own richness. Just as there can be no dialogue with “others” without a sense of our own identity, so there can be no openness between peoples except on the basis of love for one’s own land, one’s own people, one’s own cultural roots. I cannot truly encounter another unless I stand on firm foundations, for it is on the basis of these that I can accept the gift the other brings and in turn offer an authentic gift of my own. I can welcome others who are different, and value the unique contribution they have to make, only if I am firmly rooted in my own people and culture. Everyone loves and cares for his or her native land and village, just as they love and care for their home and are personally responsible for its upkeep. The common good likewise requires that we protect and love our native land. Otherwise, the consequences of a disaster in one country will end up affecting the entire planet. All this brings out the positive meaning of the right to property: I care for and cultivate something that I possess, in such a way that it can contribute to the good of all.
144. It also gives rise to healthy and enriching exchanges. The experience of being raised in a particular place and sharing in a particular culture gives us insight into aspects of reality that others cannot so easily perceive. Universal does not necessarily mean bland, uniform and standardized, based on a single prevailing cultural model, for this will ultimately lead to the loss of a rich palette of shades and colours, and result in utter monotony. Such was the temptation referred to in the ancient account of the Tower of Babel. The attempt to build a tower that would reach to heaven was not an expression of unity between various peoples speaking to one another from their diversity. Instead, it was a misguided attempt, born of pride and ambition, to create a unity other than that willed by God in his providential plan for the nations (cf. Gen 11:1-9).
145. There can be a false openness to the universal, born of the shallowness of those lacking insight into the genius of their native land or harbouring unresolved resentment towards their own people. Whatever the case, “we constantly have to broaden our horizons and see the greater good which will benefit us all. But this has to be done without evasion or uprooting. We need to sink our roots deeper into the fertile soil and history of our native place, which is a gift of God. We can work on a small scale, in our own neighbourhood, but with a larger perspective… The global need not stifle, nor the particular prove barren”;[125] our model must be that of a polyhedron, in which the value of each individual is respected, where “the whole is greater than the part, but it is also greater than the sum of its parts”.[126]
A universal horizon
146. There is a kind of “local” narcissism unrelated to a healthy love of one’s own people and culture. It is born of a certain insecurity and fear of the other that leads to rejection and the desire to erect walls for self-defence. Yet it is impossible to be “local” in a healthy way without being sincerely open to the universal, without feeling challenged by what is happening in other places, without openness to enrichment by other cultures, and without solidarity and concern for the tragedies affecting other peoples. A “local narcissism” instead frets over a limited number of ideas, customs and forms of security; incapable of admiring the vast potential and beauty offered by the larger world, it lacks an authentic and generous spirit of solidarity. Life on the local level thus becomes less and less welcoming, people less open to complementarity. Its possibilities for development narrow; it grows weary and infirm. A healthy culture, on the other hand, is open and welcoming by its very nature; indeed, “a culture without universal values is not truly a culture”.[127]
147. Let us realize that as our minds and hearts narrow, the less capable we become of understanding the world around us. Without encountering and relating to differences, it is hard to achieve a clear and complete understanding even of ourselves and of our native land. Other cultures are not “enemies” from which we need to protect ourselves, but differing reflections of the inexhaustible richness of human life. Seeing ourselves from the perspective of another, of one who is different, we can better recognize our own unique features and those of our culture: its richness, its possibilities and its limitations. Our local experience needs to develop “in contrast to” and “in harmony with” the experiences of others living in diverse cultural contexts.[128]
148. In fact, a healthy openness never threatens one’s own identity. A living culture, enriched by elements from other places, does not import a mere carbon copy of those new elements, but integrates them in its own unique way. The result is a new synthesis that is ultimately beneficial to all, since the original culture itself ends up being nourished. That is why I have urged indigenous peoples to cherish their roots and their ancestral cultures. At the same time, though, I have wanted to stress that I have no intention of proposing “a completely enclosed, a-historic, static ‘indigenism’ that would reject any kind of blending (mestizaje)”. For “our own cultural identity is strengthened and enriched as a result of dialogue with those unlike ourselves. Nor is our authentic identity preserved by an impoverished isolation”.[129] The world grows and is filled with new beauty, thanks to the successive syntheses produced between cultures that are open and free of any form of cultural imposition.
149. For a healthy relationship between love of one’s native land and a sound sense of belonging to our larger human family, it is helpful to keep in mind that global society is not the sum total of different countries, but rather the communion that exists among them. The mutual sense of belonging is prior to the emergence of individual groups. Each particular group becomes part of the fabric of universal communion and there discovers its own beauty. All individuals, whatever their origin, know that they are part of the greater human family, without which they will not be able to understand themselves fully.
150. To see things in this way brings the joyful realization that no one people, culture or individual can achieve everything on its own: to attain fulfilment in life we need others. An awareness of our own limitations and incompleteness, far from being a threat, becomes the key to envisaging and pursuing a common project. For “man is a limited being who is himself limitless”.[130]
Starting with our own region
151. Thanks to regional exchanges, by which poorer countries become open to the wider world, universality does not necessarily water down their distinct features. An appropriate and authentic openness to the world presupposes the capacity to be open to one’s neighbour within a family of nations. Cultural, economic and political integration with neighbouring peoples should therefore be accompanied by a process of education that promotes the value of love for one’s neighbour, the first indispensable step towards attaining a healthy universal integration.
152. In some areas of our cities, there is still a lively sense of neighbourhood. Each person quite spontaneously perceives a duty to accompany and help his or her neighbour. In places where these community values are maintained, people experience a closeness marked by gratitude, solidarity and reciprocity. The neighbourhood gives them a sense of shared identity.[131] Would that neighbouring countries were able to encourage a similar neighbourly spirit between their peoples! Yet the spirit of individualism also affects relations between countries. The danger of thinking that we have to protect ourselves from one another, of viewing others as competitors or dangerous enemies, also affects relations between peoples in the same region. Perhaps we were trained in this kind of fear and mistrust.
153. There are powerful countries and large businesses that profit from this isolation and prefer to negotiate with each country separately. On the other hand, small or poor countries can sign agreements with their regional neighbours that will allow them to negotiate as a bloc and thus avoid being cut off, isolated and dependent on the great powers. Today, no state can ensure the common good of its population if it remains isolated.
154. The development of a global community of fraternity based on the practice of social friendship on the part of peoples and nations calls for a better kind of politics, one truly at the service of the common good. Sadly, politics today often takes forms that hinder progress towards a different world.
FORMS OF POPULISM AND LIBERALISM
155. Lack of concern for the vulnerable can hide behind a populism that exploits them demagogically for its own purposes, or a liberalism that serves the economic interests of the powerful. In both cases, it becomes difficult to envisage an open world that makes room for everyone, including the most vulnerable, and shows respect for different cultures.
Popular vs. populist
156. In recent years, the words “populism” and “populist” have invaded the communications media and everyday conversation. As a result, they have lost whatever value they might have had, and have become another source of polarization in an already divided society. Efforts are made to classify entire peoples, groups, societies and governments as “populist” or not. Nowadays it has become impossible for someone to express a view on any subject without being categorized one way or the other, either to be unfairly discredited or to be praised to the skies.
157. The attempt to see populism as a key for interpreting social reality is problematic in another way: it disregards the legitimate meaning of the word “people”. Any effort to remove this concept from common parlance could lead to the elimination of the very notion of democracy as “government by the people”. If we wish to maintain that society is more than a mere aggregate of individuals, the term “people” proves necessary. There are social phenomena that create majorities, as well as megatrends and communitarian aspirations. Men and women are capable of coming up with shared goals that transcend their differences and can thus engage in a common endeavour. Then too, it is extremely difficult to carry out a long-term project unless it becomes a collective aspiration. All these factors lie behind our use of the words “people” and “popular”. Unless they are taken into account – together with a sound critique of demagoguery – a fundamental aspect of social reality would be overlooked.
158. Here, there can be a misunderstanding. “‘People’ is not a logical category, nor is it a mystical category, if by that we mean that everything the people does is good, or that the people is an ‘angelic’ reality. Rather, it is a mythic category… When you have to explain what you mean by people, you use logical categories for the sake of explanation, and necessarily so. Yet in that way you cannot explain what it means to belong to a people. The word ‘people’ has a deeper meaning that cannot be set forth in purely logical terms. To be part of a people is to be part of a shared identity arising from social and cultural bonds. And that is not something automatic, but rather a slow, difficult process… of advancing towards a common project”.[132]
159. “Popular” leaders, those capable of interpreting the feelings and cultural dynamics of a people, and significant trends in society, do exist. The service they provide by their efforts to unite and lead can become the basis of an enduring vision of transformation and growth that would also include making room for others in the pursuit of the common good. But this can degenerate into an unhealthy “populism” when individuals are able to exploit politically a people’s culture, under whatever ideological banner, for their own personal advantage or continuing grip on power. Or when, at other times, they seek popularity by appealing to the basest and most selfish inclinations of certain sectors of the population. This becomes all the more serious when, whether in cruder or more subtle forms, it leads to the usurpation of institutions and laws.
160. Closed populist groups distort the word “people”, since they are not talking about a true people. The concept of “people” is in fact open-ended. A living and dynamic people, a people with a future, is one constantly open to a new synthesis through its ability to welcome differences. In this way, it does not deny its proper identity, but is open to being mobilized, challenged, broadened and enriched by others, and thus to further growth and development.
161. Another sign of the decline of popular leadership is concern for short-term advantage. One meets popular demands for the sake of gaining votes or support, but without advancing in an arduous and constant effort to generate the resources people need to develop and earn a living by their own efforts and creativity. In this regard, I have made it clear that “I have no intention of proposing an irresponsible populism”.[133] Eliminating inequality requires an economic growth that can help to tap each region’s potential and thus guarantee a sustainable equality.[134] At the same time, it follows that “welfare projects, which meet certain urgent needs, should be considered merely temporary responses”.[135]
162. The biggest issue is employment. The truly “popular” thing – since it promotes the good of the people – is to provide everyone with the opportunity to nurture the seeds that God has planted in each of us: our talents, our initiative and our innate resources. This is the finest help we can give to the poor, the best path to a life of dignity. Hence my insistence that, “helping the poor financially must always be a provisional solution in the face of pressing needs. The broader objective should always be to allow them a dignified life through work”.[136] Since production systems may change, political systems must keep working to structure society in such a way that everyone has a chance to contribute his or her own talents and efforts. For “there is no poverty worse than that which takes away work and the dignity of work”.[137] In a genuinely developed society, work is an essential dimension of social life, for it is not only a means of earning one’s daily bread, but also of personal growth, the building of healthy relationships, self-expression and the exchange of gifts. Work gives us a sense of shared responsibility for the development of the world, and ultimately, for our life as a people.
The benefits and limits of liberal approaches
163. The concept of a “people”, which naturally entails a positive view of community and cultural bonds, is usually rejected by individualistic liberal approaches, which view society as merely the sum of coexisting interests. One speaks of respect for freedom, but without roots in a shared narrative; in certain contexts, those who defend the rights of the most vulnerable members of society tend to be criticized as populists. The notion of a people is considered an abstract construct, something that does not really exist. But this is to create a needless dichotomy. Neither the notion of “people” nor that of “neighbour” can be considered purely abstract or romantic, in such a way that social organization, science and civic institutions can be rejected or treated with contempt.[138]
164. Charity, on the other hand, unites both dimensions – the abstract and the institutional – since it calls for an effective process of historical change that embraces everything: institutions, law, technology, experience, professional expertise, scientific analysis, administrative procedures, and so forth. For that matter, “private life cannot exist unless it is protected by public order. A domestic hearth has no real warmth unless it is safeguarded by law, by a state of tranquillity founded on law, and enjoys a minimum of wellbeing ensured by the division of labour, commercial exchange, social justice and political citizenship”.[139]
165. True charity is capable of incorporating all these elements in its concern for others. In the case of personal encounters, including those involving a distant or forgotten brother or sister, it can do so by employing all the resources that the institutions of an organized, free and creative society are capable of generating. Even the Good Samaritan, for example, needed to have a nearby inn that could provide the help that he was personally unable to offer. Love of neighbour is concrete and squanders none of the resources needed to bring about historical change that can benefit the poor and disadvantaged. At times, however, leftist ideologies or social doctrines linked to individualistic ways of acting and ineffective procedures affect only a few, while the majority of those left behind remain dependent on the goodwill of others. This demonstrates the need for a greater spirit of fraternity, but also a more efficient worldwide organization to help resolve the problems plaguing the abandoned who are suffering and dying in poor countries. It also shows that there is no one solution, no single acceptable methodology, no economic recipe that can be applied indiscriminately to all. Even the most rigorous scientific studies can propose different courses of action.
166. Everything, then, depends on our ability to see the need for a change of heart, attitudes and lifestyles. Otherwise, political propaganda, the media and the shapers of public opinion will continue to promote an individualistic and uncritical culture subservient to unregulated economic interests and societal institutions at the service of those who already enjoy too much power. My criticism of the technocratic paradigm involves more than simply thinking that if we control its excesses everything will be fine. The bigger risk does not come from specific objects, material realities or institutions, but from the way that they are used. It has to do with human weakness, the proclivity to selfishness that is part of what the Christian tradition refers to as “concupiscence”: the human inclination to be concerned only with myself, my group, my own petty interests. Concupiscence is not a flaw limited to our own day. It has been present from the beginning of humanity, and has simply changed and taken on different forms down the ages, using whatever means each moment of history can provide. Concupiscence, however, can be overcome with the help of God.
167. Education and upbringing, concern for others, a well-integrated view of life and spiritual growth: all these are essential for quality human relationships and for enabling society itself to react against injustices, aberrations and abuses of economic, technological, political and media power. Some liberal approaches ignore this factor of human weakness; they envisage a world that follows a determined order and is capable by itself of ensuring a bright future and providing solutions for every problem.
168. The marketplace, by itself, cannot resolve every problem, however much we are asked to believe this dogma of neoliberal faith. Whatever the challenge, this impoverished and repetitive school of thought always offers the same recipes. Neoliberalism simply reproduces itself by resorting to the magic theories of “spillover” or “trickle” – without using the name – as the only solution to societal problems. There is little appreciation of the fact that the alleged “spillover” does not resolve the inequality that gives rise to new forms of violence threatening the fabric of society. It is imperative to have a proactive economic policy directed at “promoting an economy that favours productive diversity and business creativity”[140] and makes it possible for jobs to be created and not cut. Financial speculation fundamentally aimed at quick profit continues to wreak havoc. Indeed, “without internal forms of solidarity and mutual trust, the market cannot completely fulfil its proper economic function. And today this trust has ceased to exist”.[141] The story did not end the way it was meant to, and the dogmatic formulae of prevailing economic theory proved not to be infallible. The fragility of world systems in the face of the pandemic has demonstrated that not everything can be resolved by market freedom. It has also shown that, in addition to recovering a sound political life that is not subject to the dictates of finance, “we must put human dignity back at the centre and on that pillar build the alternative social structures we need”.[142]
169. In some closed and monochrome economic approaches, for example, there seems to be no place for popular movements that unite the unemployed, temporary and informal workers and many others who do not easily find a place in existing structures. Yet those movements manage various forms of popular economy and of community production. What is needed is a model of social, political and economic participation “that can include popular movements and invigorate local, national and international governing structures with that torrent of moral energy that springs from including the excluded in the building of a common destiny”, while also ensuring that “these experiences of solidarity which grow up from below, from the subsoil of the planet – can come together, be more coordinated, keep on meeting one another”.[143] This, however, must happen in a way that will not betray their distinctive way of acting as “sowers of change, promoters of a process involving millions of actions, great and small, creatively intertwined like words in a poem”.[144] In that sense, such movements are “social poets” that, in their own way, work, propose, promote and liberate. They help make possible an integral human development that goes beyond “the idea of social policies being a policy for the poor, but never with the poor and never of the poor, much less part of a project that reunites peoples”.[145] They may be troublesome, and certain “theorists” may find it hard to classify them, yet we must find the courage to acknowledge that, without them, “democracy atrophies, turns into a mere word, a formality; it loses its representative character and becomes disembodied, since it leaves out the people in their daily struggle for dignity, in the building of their future”.[146]
170. I would once more observe that “the financial crisis of 2007-08 provided an opportunity to develop a new economy, more attentive to ethical principles, and new ways of regulating speculative financial practices and virtual wealth. But the response to the crisis did not include rethinking the outdated criteria which continue to rule the world”.[147] Indeed, it appears that the actual strategies developed worldwide in the wake of the crisis fostered greater individualism, less integration and increased freedom for the truly powerful, who always find a way to escape unscathed.
171. I would also insist that “to give to each his own – to cite the classic definition of justice – means that no human individual or group can consider itself absolute, entitled to bypass the dignity and the rights of other individuals or their social groupings. The effective distribution of power (especially political, economic, defence-related and technological power) among a plurality of subjects, and the creation of a juridical system for regulating claims and interests, are one concrete way of limiting power. Yet today’s world presents us with many false rights and – at the same time – broad sectors which are vulnerable, victims of power badly exercised”.[148]
172. The twenty-first century “is witnessing a weakening of the power of nation states, chiefly because the economic and financial sectors, being transnational, tend to prevail over the political. Given this situation, it is essential to devise stronger and more efficiently organized international institutions, with functionaries who are appointed fairly by agreement among national governments, and empowered to impose sanctions”.[149] When we talk about the possibility of some form of world authority regulated by law,[150] we need not necessarily think of a personal authority. Still, such an authority ought at least to promote more effective world organizations, equipped with the power to provide for the global common good, the elimination of hunger and poverty and the sure defence of fundamental human rights.
173. In this regard, I would also note the need for a reform of “the United Nations Organization, and likewise of economic institutions and international finance, so that the concept of the family of nations can acquire real teeth”.[151] Needless to say, this calls for clear legal limits to avoid power being co-opted only by a few countries and to prevent cultural impositions or a restriction of the basic freedoms of weaker nations on the basis of ideological differences. For “the international community is a juridical community founded on the sovereignty of each member state, without bonds of subordination that deny or limit its independence”.[152] At the same time, “the work of the United Nations, according to the principles set forth in the Preamble and the first Articles of its founding Charter, can be seen as the development and promotion of the rule of law, based on the realization that justice is an essential condition for achieving the ideal of universal fraternity… There is a need to ensure the uncontested rule of law and tireless recourse to negotiation, mediation and arbitration, as proposed by the Charter of the United Nations, which constitutes truly a fundamental juridical norm”.[153] There is need to prevent this Organization from being delegitimized, since its problems and shortcomings are capable of being jointly addressed and resolved.
174. Courage and generosity are needed in order freely to establish shared goals and to ensure the worldwide observance of certain essential norms. For this to be truly useful, it is essential to uphold “the need to be faithful to agreements undertaken (pacta sunt servanda)”,[154] and to avoid the “temptation to appeal to the law of force rather than to the force of law”.[155] This means reinforcing the “normative instruments for the peaceful resolution of controversies... so as to strengthen their scope and binding force”.[156] Among these normative instruments, preference should be given to multilateral agreements between states, because, more than bilateral agreements, they guarantee the promotion of a truly universal common good and the protection of weaker states.
175. Providentially, many groups and organizations within civil society help to compensate for the shortcomings of the international community, its lack of coordination in complex situations, its lack of attention to fundamental human rights and to the critical needs of certain groups. Here we can see a concrete application of the principle of subsidiarity, which justifies the participation and activity of communities and organizations on lower levels as a means of integrating and complementing the activity of the state. These groups and organizations often carry out commendable efforts in the service of the common good and their members at times show true heroism, revealing something of the grandeur of which our humanity is still capable.
176. For many people today, politics is a distasteful word, often due to the mistakes, corruption and inefficiency of some politicians. There are also attempts to discredit politics, to replace it with economics or to twist it to one ideology or another. Yet can our world function without politics? Can there be an effective process of growth towards universal fraternity and social peace without a sound political life?[157]
The politics we need
177. Here I would once more observe that “politics must not be subject to the economy, nor should the economy be subject to the dictates of an efficiency-driven paradigm of technocracy”.[158] Although misuse of power, corruption, disregard for law and inefficiency must clearly be rejected, “economics without politics cannot be justified, since this would make it impossible to favour other ways of handling the various aspects of the present crisis”.[159] Instead, “what is needed is a politics which is far-sighted and capable of a new, integral and interdisciplinary approach to handling the different aspects of the crisis”.[160] In other words, a “healthy politics… capable of reforming and coordinating institutions, promoting best practices and overcoming undue pressure and bureaucratic inertia”.[161] We cannot expect economics to do this, nor can we allow economics to take over the real power of the state.
178. In the face of many petty forms of politics focused on immediate interests, I would repeat that “true statecraft is manifest when, in difficult times, we uphold high principles and think of the long-term common good. Political powers do not find it easy to assume this duty in the work of nation-building”,[162] much less in forging a common project for the human family, now and in the future. Thinking of those who will come after us does not serve electoral purposes, yet it is what authentic justice demands. As the Bishops of Portugal have taught, the earth “is lent to each generation, to be handed on to the generation that follows”.[163]
179. Global society is suffering from grave structural deficiencies that cannot be resolved by piecemeal solutions or quick fixes. Much needs to change, through fundamental reform and major renewal. Only a healthy politics, involving the most diverse sectors and skills, is capable of overseeing this process. An economy that is an integral part of a political, social, cultural and popular programme directed to the common good could pave the way for “different possibilities which do not involve stifling human creativity and its ideals of progress, but rather directing that energy along new channels”.[164]
Political love
180. Recognizing that all people are our brothers and sisters, and seeking forms of social friendship that include everyone, is not merely utopian. It demands a decisive commitment to devising effective means to this end. Any effort along these lines becomes a noble exercise of charity. For whereas individuals can help others in need, when they join together in initiating social processes of fraternity and justice for all, they enter the “field of charity at its most vast, namely political charity”.[165] This entails working for a social and political order whose soul is social charity.[166] Once more, I appeal for a renewed appreciation of politics as “a lofty vocation and one of the highest forms of charity, inasmuch as it seeks the common good”.[167]
181. Every commitment inspired by the Church’s social doctrine is “derived from charity, which according to the teaching of Jesus is the synthesis of the entire Law (cf. Mt 22:36-40)”.[168] This means acknowledging that “love, overflowing with small gestures of mutual care, is also civic and political, and it makes itself felt in every action that seeks to build a better world”.[169] For this reason, charity finds expression not only in close and intimate relationships but also in “macro-relationships: social, economic and political”.[170]
182. This political charity is born of a social awareness that transcends every individualistic mindset: “‘Social charity makes us love the common good’, it makes us effectively seek the good of all people, considered not only as individuals or private persons, but also in the social dimension that unites them”.[171] Each of us is fully a person when we are part of a people; at the same time, there are no peoples without respect for the individuality of each person. “People” and “person” are correlative terms. Nonetheless, there are attempts nowadays to reduce persons to isolated individuals easily manipulated by powers pursuing spurious interests. Good politics will seek ways of building communities at every level of social life, in order to recalibrate and reorient globalization and thus avoid its disruptive effects.
Effective love
183. “Social love”[172] makes it possible to advance towards a civilization of love, to which all of us can feel called. Charity, with its impulse to universality, is capable of building a new world.[173] No mere sentiment, it is the best means of discovering effective paths of development for everyone. Social love is a “force capable of inspiring new ways of approaching the problems of today’s world, of profoundly renewing structures, social organizations and legal systems from within”.[174]
184. Charity is at the heart of every healthy and open society, yet today “it is easily dismissed as irrelevant for interpreting and giving direction to moral responsibility”.[175] Charity, when accompanied by a commitment to the truth, is much more than personal feeling, and consequently need not “fall prey to contingent subjective emotions and opinions”.[176] Indeed its close relation to truth fosters its universality and preserves it from being “confined to a narrow field devoid of relationships”.[177] Otherwise, it would be “excluded from the plans and processes of promoting human development of universal range, in dialogue between knowledge and praxis”.[178] Without truth, emotion lacks relational and social content. Charity’s openness to truth thus protects it from “a fideism that deprives it of its human and universal breadth”.[179]
185. Charity needs the light of the truth that we constantly seek. “That light is both the light of reason and the light of faith”,[180] and does not admit any form of relativism. Yet it also respects the development of the sciences and their essential contribution to finding the surest and most practical means of achieving the desired results. For when the good of others is at stake, good intentions are not enough. Concrete efforts must be made to bring about whatever they and their nations need for the sake of their development.
THE EXERCISE OF POLITICAL LOVE
186. There is a kind of love that is “elicited”: its acts proceed directly from the virtue of charity and are directed to individuals and peoples. There is also a “commanded” love, expressed in those acts of charity that spur people to create more sound institutions, more just regulations, more supportive structures.[181] It follows that “it is an equally indispensable act of love to strive to organize and structure society so that one’s neighbour will not find himself in poverty”.[182] It is an act of charity to assist someone suffering, but it is also an act of charity, even if we do not know that person, to work to change the social conditions that caused his or her suffering. If someone helps an elderly person cross a river, that is a fine act of charity. The politician, on the other hand, builds a bridge, and that too is an act of charity. While one person can help another by providing something to eat, the politician creates a job for that other person, and thus practices a lofty form of charity that ennobles his or her political activity.
Sacrifices born of love
187. This charity, which is the spiritual heart of politics, is always a preferential love shown to those in greatest need; it undergirds everything we do on their behalf.[183] Only a gaze transformed by charity can enable the dignity of others to be recognized and, as a consequence, the poor to be acknowledged and valued in their dignity, respected in their identity and culture, and thus truly integrated into society. That gaze is at the heart of the authentic spirit of politics. It sees paths open up that are different from those of a soulless pragmatism. It makes us realize that “the scandal of poverty cannot be addressed by promoting strategies of containment that only tranquilize the poor and render them tame and inoffensive. How sad it is when we find, behind allegedly altruistic works, the other being reduced to passivity”.[184] What are needed are new pathways of self-expression and participation in society. Education serves these by making it possible for each human being to shape his or her own future. Here too we see the importance of the principle of subsidiarity, which is inseparable from the principle of solidarity.
188. These considerations help us recognize the urgent need to combat all that threatens or violates fundamental human rights. Politicians are called to “tend to the needs of individuals and peoples. To tend those in need takes strength and tenderness, effort and generosity in the midst of a functionalistic and privatized mindset that inexorably leads to a ‘throwaway culture’… It involves taking responsibility for the present with its situations of utter marginalization and anguish, and being capable of bestowing dignity upon it”.[185] It will likewise inspire intense efforts to ensure that “everything be done to protect the status and dignity of the human person”.[186] Politicians are doers, builders with ambitious goals, possessed of a broad, realistic and pragmatic gaze that looks beyond their own borders. Their biggest concern should not be about a drop in the polls, but about finding effective solutions to “the phenomenon of social and economic exclusion, with its baneful consequences: human trafficking, the marketing of human organs and tissues, the sexual exploitation of boys and girls, slave labour, including prostitution, the drug and weapons trade, terrorism and international organized crime. Such is the magnitude of these situations, and their toll in innocent lives, that we must avoid every temptation to fall into a declarationist nominalism that would assuage our consciences. We need to ensure that our institutions are truly effective in the struggle against all these scourges”.[187] This includes taking intelligent advantage of the immense resources offered by technological development.
189. We are still far from a globalization of the most basic of human rights. That is why world politics needs to make the effective elimination of hunger one of its foremost and imperative goals. Indeed, “when financial speculation manipulates the price of food, treating it as just another commodity, millions of people suffer and die from hunger. At the same time, tons of food are thrown away. This constitutes a genuine scandal. Hunger is criminal; food is an inalienable right”.[188] Often, as we carry on our semantic or ideological disputes, we allow our brothers and sisters to die of hunger and thirst, without shelter or access to health care. Alongside these basic needs that remain unmet, trafficking in persons represents another source of shame for humanity, one that international politics, moving beyond fine speeches and good intentions, must no longer tolerate. These things are essential; they can no longer be deferred.
A love that integrates and unites
190. Political charity is also expressed in a spirit of openness to everyone. Government leaders should be the first to make the sacrifices that foster encounter and to seek convergence on at least some issues. They should be ready to listen to other points of view and to make room for everyone. Through sacrifice and patience, they can help to create a beautiful polyhedral reality in which everyone has a place. Here, economic negotiations do not work. Something else is required: an exchange of gifts for the common good. It may seem naïve and utopian, yet we cannot renounce this lofty aim.
191. At a time when various forms of fundamentalist intolerance are damaging relationships between individuals, groups and peoples, let us be committed to living and teaching the value of respect for others, a love capable of welcoming differences, and the priority of the dignity of every human being over his or her ideas, opinions, practices and even sins. Even as forms of fanaticism, closedmindedness and social and cultural fragmentation proliferate in present-day society, a good politician will take the first step and insist that different voices be heard. Disagreements may well give rise to conflicts, but uniformity proves stifling and leads to cultural decay. May we not be content with being enclosed in one fragment of reality.
192. In this regard, Grand Imam Ahmad Al-Tayyeb and I have called upon “the architects of international policy and world economy to work strenuously to spread the culture of tolerance and of living together in peace; to intervene at the earliest opportunity to stop the shedding of innocent blood”.[189] When a specific policy sows hatred and fear towards other nations in the name of its own country’s welfare, there is need to be concerned, to react in time and immediately to correct the course.
193. Apart from their tireless activity, politicians are also men and women. They are called to practice love in their daily interpersonal relationships. As persons, they need to consider that “the modern world, with its technical advances, tends increasingly to functionalize the satisfaction of human desires, now classified and subdivided among different services. Less and less will people be called by name, less and less will this unique being be treated as a person with his or her own feelings, sufferings, problems, joys and family. Their illnesses will be known only in order to cure them, their financial needs only to provide for them, their lack of a home only to give them lodging, their desires for recreation and entertainment only to satisfy them”. Yet it must never be forgotten that “loving the most insignificant of human beings as a brother, as if there were no one else in the world but him, cannot be considered a waste of time”.[190]
194. Politics too must make room for a tender love of others. “What is tenderness? It is love that draws near and becomes real. A movement that starts from our heart and reaches the eyes, the ears and the hands… Tenderness is the path of choice for the strongest, most courageous men and women”.[191] Amid the daily concerns of political life, “the smallest, the weakest, the poorest should touch our hearts: indeed, they have a ‘right’ to appeal to our heart and soul. They are our brothers and sisters, and as such we must love and care for them”.[192]
195. All this can help us realize that what is important is not constantly achieving great results, since these are not always possible. In political activity, we should remember that, “appearances notwithstanding, every person is immensely holy and deserves our love. Consequently, if I can help at least one person to have a better life, that already justifies the offering of my life. It is a wonderful thing to be God’s faithful people. We achieve fulfilment when we break down walls and our hearts are filled with faces and names!”[193] The great goals of our dreams and plans may only be achieved in part. Yet beyond this, those who love, and who no longer view politics merely as a quest for power, “may be sure that none of our acts of love will be lost, nor any of our acts of sincere concern for others. No single act of love for God will be lost, no generous effort is meaningless, no painful endurance is wasted. All of these encircle our world like a vital force”.[194]
196. For this reason, it is truly noble to place our hope in the hidden power of the seeds of goodness we sow, and thus to initiate processes whose fruits will be reaped by others. Good politics combines love with hope and with confidence in the reserves of goodness present in human hearts. Indeed, “authentic political life, built upon respect for law and frank dialogue between individuals, is constantly renewed whenever there is a realization that every woman and man, and every new generation, brings the promise of new relational, intellectual, cultural and spiritual energies”.[195]
197. Viewed in this way, politics is something more noble than posturing, marketing and media spin. These sow nothing but division, conflict and a bleak cynicism incapable of mobilizing people to pursue a common goal. At times, in thinking of the future, we do well to ask ourselves, “Why I am doing this?”, “What is my real aim?” For as time goes on, reflecting on the past, the questions will not be: “How many people endorsed me?”, “How many voted for me?”, “How many had a positive image of me?” The real, and potentially painful, questions will be, “How much love did I put into my work?” “What did I do for the progress of our people?” “What mark did I leave on the life of society?” “What real bonds did I create?” “What positive forces did I unleash?” “How much social peace did I sow?” “What good did I achieve in the position that was entrusted to me?”
DIALOGUE AND FRIENDSHIP IN SOCIETY
198. Approaching, speaking, listening, looking at, coming to know and understand one another, and to find common ground: all these things are summed up in the one word “dialogue”. If we want to encounter and help one another, we have to dialogue. There is no need for me to stress the benefits of dialogue. I have only to think of what our world would be like without the patient dialogue of the many generous persons who keep families and communities together. Unlike disagreement and conflict, persistent and courageous dialogue does not make headlines, but quietly helps the world to live much better than we imagine.
SOCIAL DIALOGUE FOR A NEW CULTURE
199. Some people attempt to flee from reality, taking refuge in their own little world; others react to it with destructive violence. Yet “between selfish indifference and violent protest there is always another possible option: that of dialogue. Dialogue between generations; dialogue among our people, for we are that people; readiness to give and receive, while remaining open to the truth. A country flourishes when constructive dialogue occurs between its many rich cultural components: popular culture, university culture, youth culture, artistic culture, technological culture, economic culture, family culture and media culture”.[196]
200. Dialogue is often confused with something quite different: the feverish exchange of opinions on social networks, frequently based on media information that is not always reliable. These exchanges are merely parallel monologues. They may attract some attention by their sharp and aggressive tone. But monologues engage no one, and their content is frequently self-serving and contradictory.
201. Indeed, the media’s noisy potpourri of facts and opinions is often an obstacle to dialogue, since it lets everyone cling stubbornly to his or her own ideas, interests and choices, with the excuse that everyone else is wrong. It becomes easier to discredit and insult opponents from the outset than to open a respectful dialogue aimed at achieving agreement on a deeper level. Worse, this kind of language, usually drawn from media coverage of political campaigns, has become so widespread as to be part of daily conversation. Discussion is often manipulated by powerful special interests that seek to tilt public opinion unfairly in their favour. This kind of manipulation can be exercised not only by governments, but also in economics, politics, communications, religion and in other spheres. Attempts can be made to justify or excuse it when it tends to serve one’s own economic or ideological interests, but sooner or later it turns against those very interests.
202. Lack of dialogue means that in these individual sectors people are concerned not for the common good, but for the benefits of power or, at best, for ways to impose their own ideas. Round tables thus become mere negotiating sessions, in which individuals attempt to seize every possible advantage, rather than cooperating in the pursuit of the common good. The heroes of the future will be those who can break with this unhealthy mindset and determine respectfully to promote truthfulness, aside from personal interest. God willing, such heroes are quietly emerging, even now, in the midst of our society.
Building together
203. Authentic social dialogue involves the ability to respect the other’s point of view and to admit that it may include legitimate convictions and concerns. Based on their identity and experience, others have a contribution to make, and it is desirable that they should articulate their positions for the sake of a more fruitful public debate. When individuals or groups are consistent in their thinking, defend their values and convictions, and develop their arguments, this surely benefits society. Yet, this can only occur to the extent that there is genuine dialogue and openness to others. Indeed, “in a true spirit of dialogue, we grow in our ability to grasp the significance of what others say and do, even if we cannot accept it as our own conviction. In this way, it becomes possible to be frank and open about our beliefs, while continuing to discuss, to seek points of contact, and above all, to work and struggle together”.[197] Public discussion, if it truly makes room for everyone and does not manipulate or conceal information, is a constant stimulus to a better grasp of the truth, or at least its more effective expression. It keeps different sectors from becoming complacent and self-centred in their outlook and their limited concerns. Let us not forget that “differences are creative; they create tension and in the resolution of tension lies humanity’s progress”.[198]
204. There is a growing conviction that, together with specialized scientific advances, we are in need of greater interdisciplinary communication. Although reality is one, it can be approached from various angles and with different methodologies. There is a risk that a single scientific advance will be seen as the only possible lens for viewing a particular aspect of life, society and the world. Researchers who are expert in their own field, yet also familiar with the findings of other sciences and disciplines, are in a position to discern other aspects of the object of their study and thus to become open to a more comprehensive and integral knowledge of reality.
205. In today’s globalized world, “the media can help us to feel closer to one another, creating a sense of the unity of the human family which in turn can inspire solidarity and serious efforts to ensure a more dignified life for all… The media can help us greatly in this, especially nowadays, when the networks of human communication have made unprecedented advances. The internet, in particular, offers immense possibilities for encounter and solidarity. This is something truly good, a gift from God”.[199] We need constantly to ensure that present-day forms of communication are in fact guiding us to generous encounter with others, to honest pursuit of the whole truth, to service, to closeness to the underprivileged and to the promotion of the common good. As the Bishops of Australia have pointed out, we cannot accept “a digital world designed to exploit our weaknesses and bring out the worst in people”.[200]
206. The solution is not relativism. Under the guise of tolerance, relativism ultimately leaves the interpretation of moral values to those in power, to be defined as they see fit. “In the absence of objective truths or sound principles other than the satisfaction of our own desires and immediate needs… we should not think that political efforts or the force of law will be sufficient… When the culture itself is corrupt, and objective truth and universally valid principles are no longer upheld, then laws can only be seen as arbitrary impositions or obstacles to be avoided”.[201]
207. Is it possible to be concerned for truth, to seek the truth that responds to life’s deepest meaning? What is law without the conviction, born of age-old reflection and great wisdom, that each human being is sacred and inviolable? If society is to have a future, it must respect the truth of our human dignity and submit to that truth. Murder is not wrong simply because it is socially unacceptable and punished by law, but because of a deeper conviction. This is a non-negotiable truth attained by the use of reason and accepted in conscience. A society is noble and decent not least for its support of the pursuit of truth and its adherence to the most basic of truths.
208. We need to learn how to unmask the various ways that the truth is manipulated, distorted and concealed in public and private discourse. What we call “truth” is not only the reporting of facts and events, such as we find in the daily papers. It is primarily the search for the solid foundations sustaining our decisions and our laws. This calls for acknowledging that the human mind is capable of transcending immediate concerns and grasping certain truths that are unchanging, as true now as in the past. As it peers into human nature, reason discovers universal values derived from that same nature.
209. Otherwise, is it not conceivable that those fundamental human rights which we now consider unassailable will be denied by those in power, once they have gained the “consensus” of an apathetic or intimidated population? Nor would a mere consensus between different nations, itself equally open to manipulation, suffice to protect them. We have ample evidence of the great good of which we are capable, yet we also have to acknowledge our inherent destructiveness. Is not the indifference and the heartless individualism into which we have fallen also a result of our sloth in pursuing higher values, values that transcend our immediate needs? Relativism always brings the risk that some or other alleged truth will be imposed by the powerful or the clever. Yet, “when it is a matter of the moral norms prohibiting intrinsic evil, there are no privileges or exceptions for anyone. It makes no difference whether one is the master of the world or the ‘poorest of the poor’ on the face of the earth. Before the demands of morality we are all absolutely equal”.[202]
210. What is now happening, and drawing us into a perverse and barren way of thinking, is the reduction of ethics and politics to physics. Good and evil no longer exist in themselves; there is only a calculus of benefits and burdens. As a result of the displacement of moral reasoning, the law is no longer seen as reflecting a fundamental notion of justice but as mirroring notions currently in vogue. Breakdown ensues: everything is “leveled down” by a superficial bartered consensus. In the end, the law of the strongest prevails.
Consensus and truth
211. In a pluralistic society, dialogue is the best way to realize what ought always to be affirmed and respected apart from any ephemeral consensus. Such dialogue needs to be enriched and illumined by clear thinking, rational arguments, a variety of perspectives and the contribution of different fields of knowledge and points of view. Nor can it exclude the conviction that it is possible to arrive at certain fundamental truths always to be upheld. Acknowledging the existence of certain enduring values, however demanding it may be to discern them, makes for a robust and solid social ethics. Once those fundamental values are acknowledged and adopted through dialogue and consensus, we realize that they rise above consensus; they transcend our concrete situations and remain non-negotiable. Our understanding of their meaning and scope can increase – and in that respect, consensus is a dynamic reality – but in themselves, they are held to be enduring by virtue of their inherent meaning.
212. If something always serves the good functioning of society, is it not because, lying beyond it, there is an enduring truth accessible to the intellect? Inherent in the nature of human beings and society there exist certain basic structures to support our development and survival. Certain requirements thus ensue, and these can be discovered through dialogue, even though, strictly speaking, they are not created by consensus. The fact that certain rules are indispensable for the very life of society is a sign that they are good in and of themselves. There is no need, then, to oppose the interests of society, consensus and the reality of objective truth. These three realities can be harmonized whenever, through dialogue, people are unafraid to get to the heart of an issue.
213. The dignity of others is to be respected in all circumstances, not because that dignity is something we have invented or imagined, but because human beings possess an intrinsic worth superior to that of material objects and contingent situations. This requires that they be treated differently. That every human being possesses an inalienable dignity is a truth that corresponds to human nature apart from all cultural change. For this reason, human beings have the same inviolable dignity in every age of history and no one can consider himself or herself authorized by particular situations to deny this conviction or to act against it. The intellect can investigate the reality of things through reflection, experience and dialogue, and come to recognize in that reality, which transcends it, the basis of certain universal moral demands.
214. To agnostics, this foundation could prove sufficient to confer a solid and stable universal validity on basic and non-negotiable ethical principles that could serve to prevent further catastrophes. As believers, we are convinced that human nature, as the source of ethical principles, was created by God, and that ultimately it is he who gives those principles their solid foundation.[203] This does not result in an ethical rigidity nor does it lead to the imposition of any one moral system, since fundamental and universally valid moral principles can be embodied in different practical rules. Thus, room for dialogue will always exist.
215. “Life, for all its confrontations, is the art of encounter”.[204] I have frequently called for the growth of a culture of encounter capable of transcending our differences and divisions. This means working to create a many-faceted polyhedron whose different sides form a variegated unity, in which “the whole is greater than the part”.[205] The image of a polyhedron can represent a society where differences coexist, complementing, enriching and reciprocally illuminating one another, even amid disagreements and reservations. Each of us can learn something from others. No one is useless and no one is expendable. This also means finding ways to include those on the peripheries of life. For they have another way of looking at things; they see aspects of reality that are invisible to the centres of power where weighty decisions are made.
Encounter that becomes culture
216. The word “culture” points to something deeply embedded within a people, its most cherished convictions and its way of life. A people’s “culture” is more than an abstract idea. It has to do with their desires, their interests and ultimately the way they live their lives. To speak of a “culture of encounter” means that we, as a people, should be passionate about meeting others, seeking points of contact, building bridges, planning a project that includes everyone. This becomes an aspiration and a style of life. The subject of this culture is the people, not simply one part of society that would pacify the rest with the help of professional and media resources.
217. Social peace demands hard work, craftsmanship. It would be easier to keep freedoms and differences in check with cleverness and a few resources. But such a peace would be superficial and fragile, not the fruit of a culture of encounter that brings enduring stability. Integrating differences is a much more difficult and slow process, yet it is the guarantee of a genuine and lasting peace. That peace is not achieved by recourse only to those who are pure and untainted, since “even people who can be considered questionable on account of their errors have something to offer which must not be overlooked”.[206] Nor does it come from ignoring social demands or quelling disturbances, since it is not “a consensus on paper or a transient peace for a contented minority”.[207] What is important is to create processes of encounter, processes that build a people that can accept differences. Let us arm our children with the weapons of dialogue! Let us teach them to fight the good fight of the culture of encounter!
The joy of acknowledging others
218. All this calls for the ability to recognize other people’s right to be themselves and to be different. This recognition, as it becomes a culture, makes possible the creation of a social covenant. Without it, subtle ways can be found to make others insignificant, irrelevant, of no value to society. While rejecting certain visible forms of violence, another more insidious kind of violence can take root: the violence of those who despise people who are different, especially when their demands in any way compromise their own particular interests.
219. When one part of society exploits all that the world has to offer, acting as if the poor did not exist, there will eventually be consequences. Sooner or later, ignoring the existence and rights of others will erupt in some form of violence, often when least expected. Liberty, equality and fraternity can remain lofty ideals unless they apply to everyone. Encounter cannot take place only between the holders of economic, political or academic power. Genuine social encounter calls for a dialogue that engages the culture shared by the majority of the population. It often happens that good ideas are not accepted by the poorer sectors of society because they are presented in a cultural garb that is not their own and with which they cannot identify. A realistic and inclusive social covenant must also be a “cultural covenant”, one that respects and acknowledges the different worldviews, cultures and lifestyles that coexist in society.
220. Indigenous peoples, for example, are not opposed to progress, yet theirs is a different notion of progress, often more humanistic than the modern culture of developed peoples. Theirs is not a culture meant to benefit the powerful, those driven to create for themselves a kind of earthly paradise. Intolerance and lack of respect for indigenous popular cultures is a form of violence grounded in a cold and judgmental way of viewing them. No authentic, profound and enduring change is possible unless it starts from the different cultures, particularly those of the poor. A cultural covenant eschews a monolithic understanding of the identity of a particular place; it entails respect for diversity by offering opportunities for advancement and social integration to all.
221. Such a covenant also demands the realization that some things may have to be renounced for the common good. No one can possess the whole truth or satisfy his or her every desire, since that pretension would lead to nullifying others by denying their rights. A false notion of tolerance has to give way to a dialogic realism on the part of men and women who remain faithful to their own principles while recognizing that others also have the right to do likewise. This is the genuine acknowledgment of the other that is made possible by love alone. We have to stand in the place of others, if we are to discover what is genuine, or at least understandable, in their motivations and concerns.
222. Consumerist individualism has led to great injustice. Other persons come to be viewed simply as obstacles to our own serene existence; we end up treating them as annoyances and we become increasingly aggressive. This is even more the case in times of crisis, catastrophe and hardship, when we are tempted to think in terms of the old saying, “every man for himself”. Yet even then, we can choose to cultivate kindness. Those who do so become stars shining in the midst of darkness.
223. Saint Paul describes kindness as a fruit of the Holy Spirit (Gal 5:22). He uses the Greek word chrestótes, which describes an attitude that is gentle, pleasant and supportive, not rude or coarse. Individuals who possess this quality help make other people’s lives more bearable, especially by sharing the weight of their problems, needs and fears. This way of treating others can take different forms: an act of kindness, a concern not to offend by word or deed, a readiness to alleviate their burdens. It involves “speaking words of comfort, strength, consolation and encouragement” and not “words that demean, sadden, anger or show scorn”.[208]
224. Kindness frees us from the cruelty that at times infects human relationships, from the anxiety that prevents us from thinking of others, from the frantic flurry of activity that forgets that others also have a right to be happy. Often nowadays we find neither the time nor the energy to stop and be kind to others, to say “excuse me”, “pardon me”, “thank you”. Yet every now and then, miraculously, a kind person appears and is willing to set everything else aside in order to show interest, to give the gift of a smile, to speak a word of encouragement, to listen amid general indifference. If we make a daily effort to do exactly this, we can create a healthy social atmosphere in which misunderstandings can be overcome and conflict forestalled. Kindness ought to be cultivated; it is no superficial bourgeois virtue. Precisely because it entails esteem and respect for others, once kindness becomes a culture within society it transforms lifestyles, relationships and the ways ideas are discussed and compared. Kindness facilitates the quest for consensus; it opens new paths where hostility and conflict would burn all bridges.
225. In many parts of the world, there is a need for paths of peace to heal open wounds. There is also a need for peacemakers, men and women prepared to work boldly and creatively to initiate processes of healing and renewed encounter.
226. Renewed encounter does not mean returning to a time prior to conflicts. All of us change over time. Pain and conflict transform us. We no longer have use for empty diplomacy, dissimulation, double-speak, hidden agendas and good manners that mask reality. Those who were fierce enemies have to speak from the stark and clear truth. They have to learn how to cultivate a penitential memory, one that can accept the past in order not to cloud the future with their own regrets, problems and plans. Only by basing themselves on the historical truth of events will they be able to make a broad and persevering effort to understand one another and to strive for a new synthesis for the good of all. Every “peace process requires enduring commitment. It is a patient effort to seek truth and justice, to honour the memory of victims and to open the way, step by step, to a shared hope stronger than the desire for vengeance”.[209] As the Bishops of the Congo have said with regard to one recurring conflict: “Peace agreements on paper will not be enough. We will have to go further, by respecting the demands of truth regarding the origins of this recurring crisis. The people have the right to know what happened”.[210]
227. “Truth, in fact, is an inseparable companion of justice and mercy. All three together are essential to building peace; each, moreover, prevents the other from being altered… Truth should not lead to revenge, but rather to reconciliation and forgiveness. Truth means telling families torn apart by pain what happened to their missing relatives. Truth means confessing what happened to minors recruited by cruel and violent people. Truth means recognizing the pain of women who are victims of violence and abuse… Every act of violence committed against a human being is a wound in humanity’s flesh; every violent death diminishes us as people… Violence leads to more violence, hatred to more hatred, death to more death. We must break this cycle which seems inescapable”.[211]
THE ART AND ARCHITECTURE OF PEACE
228. The path to peace does not mean making society blandly uniform, but getting people to work together, side-by-side, in pursuing goals that benefit everyone. A wide variety of practical proposals and diverse experiences can help achieve shared objectives and serve the common good. The problems that a society is experiencing need to be clearly identified, so that the existence of different ways of understanding and resolving them can be appreciated. The path to social unity always entails acknowledging the possibility that others have, at least in part, a legitimate point of view, something worthwhile to contribute, even if they were in error or acted badly. “We should never confine others to what they may have said or done, but value them for the promise that they embody”,[212] a promise that always brings with it a spark of new hope.
229. The Bishops of South Africa have pointed out that true reconciliation is achieved proactively, “by forming a new society, a society based on service to others, rather than the desire to dominate; a society based on sharing what one has with others, rather than the selfish scramble by each for as much wealth as possible; a society in which the value of being together as human beings is ultimately more important than any lesser group, whether it be family, nation, race or culture”.[213] As the Bishops of South Korea have pointed out, true peace “can be achieved only when we strive for justice through dialogue, pursuing reconciliation and mutual development”.[214]
230. Working to overcome our divisions without losing our identity as individuals presumes that a basic sense of belonging is present in everyone. Indeed, “society benefits when each person and social group feels truly at home. In a family, parents, grandparents and children all feel at home; no one is excluded. If someone has a problem, even a serious one, even if he brought it upon himself, the rest of the family comes to his assistance; they support him. His problems are theirs… In families, everyone contributes to the common purpose; everyone works for the common good, not denying each person’s individuality but encouraging and supporting it. They may quarrel, but there is something that does not change: the family bond. Family disputes are always resolved afterwards. The joys and sorrows of each of its members are felt by all. That is what it means to be a family! If only we could view our political opponents or neighbours in the same way that we view our children or our spouse, mother or father! How good would this be! Do we love our society or is it still something remote, something anonymous that does not involve us, something to which we are not committed?”[215]
231. Negotiation often becomes necessary for shaping concrete paths to peace. Yet the processes of change that lead to lasting peace are crafted above all by peoples; each individual can act as an effective leaven by the way he or she lives each day. Great changes are not produced behind desks or in offices. This means that “everyone has a fundamental role to play in a single great creative project: to write a new page of history, a page full of hope, peace and reconciliation”.[216] There is an “architecture” of peace, to which different institutions of society contribute, each according to its own area of expertise, but there is also an “art” of peace that involves us all. From the various peace processes that have taken place in different parts of the world, “we have learned that these ways of making peace, of placing reason above revenge, of the delicate harmony between politics and law, cannot ignore the involvement of ordinary people. Peace is not achieved by normative frameworks and institutional arrangements between well-meaning political or economic groups… It is always helpful to incorporate into our peace processes the experience of those sectors that have often been overlooked, so that communities themselves can influence the development of a collective memory”.[217]
232. There is no end to the building of a country’s social peace; rather, it is “an open-ended endeavour, a never-ending task that demands the commitment of everyone and challenges us to work tirelessly to build the unity of the nation. Despite obstacles, differences and varying perspectives on the way to achieve peaceful coexistence, this task summons us to persevere in the struggle to promote a ‘culture of encounter’. This requires us to place at the centre of all political, social and economic activity the human person, who enjoys the highest dignity, and respect for the common good. May this determination help us flee from the temptation for revenge and the satisfaction of short-term partisan interests”.[218] Violent public demonstrations, on one side or the other, do not help in finding solutions. Mainly because, as the Bishops of Colombia have rightly noted, the “origins and objectives of civil demonstrations are not always clear; certain forms of political manipulation are present and in some cases they have been exploited for partisan interests”.[219]
Beginning with the least
233. Building social friendship does not only call for rapprochement between groups who took different sides at some troubled period of history, but also for a renewed encounter with the most impoverished and vulnerable sectors of society. For peace “is not merely absence of war but a tireless commitment – especially on the part of those of us charged with greater responsibility – to recognize, protect and concretely restore the dignity, so often overlooked or ignored, of our brothers and sisters, so that they can see themselves as the principal protagonists of the destiny of their nation”.[220]
234. Often, the more vulnerable members of society are the victims of unfair generalizations. If at times the poor and the dispossessed react with attitudes that appear antisocial, we should realize that in many cases those reactions are born of a history of scorn and social exclusion. The Latin American Bishops have observed that “only the closeness that makes us friends can enable us to appreciate deeply the values of the poor today, their legitimate desires, and their own manner of living the faith. The option for the poor should lead us to friendship with the poor”.[221]
235. Those who work for tranquil social coexistence should never forget that inequality and lack of integral human development make peace impossible. Indeed, “without equal opportunities, different forms of aggression and conflict will find a fertile terrain for growth and eventually explode. When a society – whether local, national or global – is willing to leave a part of itself on the fringes, no political programmes or resources spent on law enforcement or surveillance systems can indefinitely guarantee tranquility”.[222] If we have to begin anew, it must always be from the least of our brothers and sisters.
THE VALUE AND MEANING OF FORGIVENESS
236. There are those who prefer not to talk of reconciliation, for they think that conflict, violence and breakdown are part of the normal functioning of a society. In any human group there are always going to be more or less subtle power struggles between different parties. Others think that promoting forgiveness means yielding ground and influence to others. For this reason, they feel it is better to keep things as they are, maintaining a balance of power between differing groups. Still others believe that reconciliation is a sign of weakness; incapable of truly serious dialogue, they choose to avoid problems by ignoring injustices. Unable to deal with problems, they opt for an apparent peace.
Inevitable conflict
237. Forgiveness and reconciliation are central themes in Christianity and, in various ways, in other religions. Yet there is a risk that an inadequate understanding and presentation of these profound convictions can lead to fatalism, apathy and injustice, or even intolerance and violence.
238. Jesus never promoted violence or intolerance. He openly condemned the use of force to gain power over others: “You know that the rulers of the Gentiles lord it over them, and their great ones are tyrants over them. It will not be so among you” (Mt 20:25-26). Instead, the Gospel tells us to forgive “seventy times seven” (Mt 18:22) and offers the example of the unmerciful servant who was himself forgiven, yet unable to forgive others in turn (cf. Mt 18:23-35).
239. Reading other texts of the New Testament, we can see how the early Christian communities, living in a pagan world marked by widespread corruption and aberrations, sought to show unfailing patience, tolerance and understanding. Some texts are very clear in this regard: we are told to admonish our opponents “with gentleness” (2 Tim 2:25) and encouraged “to speak evil of no one, to avoid quarreling, to be gentle, and to show every courtesy to everyone. For we ourselves were once foolish” (Tit 3:2-3). The Acts of the Apostles notes that the disciples, albeit persecuted by some of the authorities, “had favour with all the people” (2:47; cf. 4:21.33; 5:13).
240. Yet when we reflect upon forgiveness, peace and social harmony, we also encounter the jarring saying of Christ: “Do not think that I have come to bring peace to the earth; I have not come to bring peace, but a sword. For I have come to set a man against his father, and a daughter against her mother, and a daughter-in-law against her mother-in-law; and a man’s foes will be members of his own household” (Mt 10:34-36). These words need to be understood in the context of the chapter in which they are found, where it is clear that Jesus is speaking of fidelity to our decision to follow him; we are not to be ashamed of that decision, even if it entails hardships of various sorts, and even our loved ones refuse to accept it. Christ’s words do not encourage us to seek conflict, but simply to endure it when it inevitably comes, lest deference to others, for the sake of supposed peace in our families or society, should detract from our own fidelity. Saint John Paul II observed that the Church “does not intend to condemn every possible form of social conflict. The Church is well aware that in the course of history conflicts of interest between different social groups inevitably arise, and that in the face of such conflicts Christians must often take a position, honestly and decisively”.[223]
Legitimate conflict and forgiveness
241. Nor does this mean calling for forgiveness when it involves renouncing our own rights, confronting corrupt officials, criminals or those who would debase our dignity. We are called to love everyone, without exception; at the same time, loving an oppressor does not mean allowing him to keep oppressing us, or letting him think that what he does is acceptable. On the contrary, true love for an oppressor means seeking ways to make him cease his oppression; it means stripping him of a power that he does not know how to use, and that diminishes his own humanity and that of others. Forgiveness does not entail allowing oppressors to keep trampling on their own dignity and that of others, or letting criminals continue their wrongdoing. Those who suffer injustice have to defend strenuously their own rights and those of their family, precisely because they must preserve the dignity they have received as a loving gift from God. If a criminal has harmed me or a loved one, no one can forbid me from demanding justice and ensuring that this person – or anyone else – will not harm me, or others, again. This is entirely just; forgiveness does not forbid it but actually demands it.
242. The important thing is not to fuel anger, which is unhealthy for our own soul and the soul of our people, or to become obsessed with taking revenge and destroying the other. No one achieves inner peace or returns to a normal life in that way. The truth is that “no family, no group of neighbours, no ethnic group, much less a nation, has a future if the force that unites them, brings them together and resolves their differences is vengeance and hatred. We cannot come to terms and unite for the sake of revenge, or treating others with the same violence with which they treated us, or plotting opportunities for retaliation under apparently legal auspices”.[224] Nothing is gained this way and, in the end, everything is lost.
243. To be sure, “it is no easy task to overcome the bitter legacy of injustices, hostility and mistrust left by conflict. It can only be done by overcoming evil with good (cf. Rom 12:21) and by cultivating those virtues which foster reconciliation, solidarity and peace”.[225] In this way, “persons who nourish goodness in their heart find that such goodness leads to a peaceful conscience and to profound joy, even in the midst of difficulties and misunderstandings. Even when affronted, goodness is never weak but rather, shows its strength by refusing to take revenge”.[226] Each of us should realize that “even the harsh judgment I hold in my heart against my brother or my sister, the open wound that was never cured, the offense that was never forgiven, the rancour that is only going to hurt me, are all instances of a struggle that I carry within me, a little flame deep in my heart that needs to be extinguished before it turns into a great blaze”.[227]
The best way to move on
244. When conflicts are not resolved but kept hidden or buried in the past, silence can lead to complicity in grave misdeeds and sins. Authentic reconciliation does not flee from conflict, but is achieved in conflict, resolving it through dialogue and open, honest and patient negotiation. Conflict between different groups “if it abstains from enmities and mutual hatred, gradually changes into an honest discussion of differences founded on a desire for justice”.[228]
245. On numerous occasions, I have spoken of “a principle indispensable to the building of friendship in society: namely, that unity is greater than conflict… This is not to opt for a kind of syncretism, or for the absorption of one into the other, but rather for a resolution which takes place on a higher plane and preserves what is valid and useful on both sides”.[229] All of us know that “when we, as individuals and communities, learn to look beyond ourselves and our particular interests, then understanding and mutual commitment bear fruit… in a setting where conflicts, tensions and even groups once considered inimical can attain a multifaceted unity that gives rise to new life”.[230]
246. Of those who have endured much unjust and cruel suffering, a sort of “social forgiveness” must not be demanded. Reconciliation is a personal act, and no one can impose it upon an entire society, however great the need to foster it. In a strictly personal way, someone, by a free and generous decision, can choose not to demand punishment (cf. Mt 5:44-46), even if it is quite legitimately demanded by society and its justice system. However, it is not possible to proclaim a “blanket reconciliation” in an effort to bind wounds by decree or to cover injustices in a cloak of oblivion. Who can claim the right to forgive in the name of others? It is moving to see forgiveness shown by those who are able to leave behind the harm they suffered, but it is also humanly understandable in the case of those who cannot. In any case, forgetting is never the answer.
247. The Shoah must not be forgotten. It is “the enduring symbol of the depths to which human evil can sink when, spurred by false ideologies, it fails to recognize the fundamental dignity of each person, which merits unconditional respect regardless of ethnic origin or religious belief”.[231] As I think of it, I cannot help but repeat this prayer: “Lord, remember us in your mercy. Grant us the grace to be ashamed of what we men have done, to be ashamed of this massive idolatry, of having despised and destroyed our own flesh which you formed from the earth, to which you gave life with your own breath of life. Never again, Lord, never again!”.[232]
248. Nor must we forget the atomic bombs dropped on Hiroshima and Nagasaki. Once again, “I pay homage to all the victims, and I bow before the strength and dignity of those who, having survived those first moments, for years afterward bore in the flesh immense suffering, and in their spirit seeds of death that drained their vital energy… We cannot allow present and future generations to lose the memory of what happened. It is a memory that ensures and encourages the building of a more fair and fraternal future”.[233] Neither must we forget the persecutions, the slave trade and the ethnic killings that continue in various countries, as well as the many other historical events that make us ashamed of our humanity. They need to be remembered, always and ever anew. We must never grow accustomed or inured to them.
249. Nowadays, it is easy to be tempted to turn the page, to say that all these things happened long ago and we should look to the future. For God’s sake, no! We can never move forward without remembering the past; we do not progress without an honest and unclouded memory. We need to “keep alive the flame of collective conscience, bearing witness to succeeding generations to the horror of what happened”, because that witness “awakens and preserves the memory of the victims, so that the conscience of humanity may rise up in the face of every desire for dominance and destruction”.[234] The victims themselves – individuals, social groups or nations – need to do so, lest they succumb to the mindset that leads to justifying reprisals and every kind of violence in the name of the great evil endured. For this reason, I think not only of the need to remember the atrocities, but also all those who, amid such great inhumanity and corruption, retained their dignity and, with gestures small or large, chose the part of solidarity, forgiveness and fraternity. To remember goodness is also a healthy thing.
Forgiving but not forgetting
250. Forgiving does not mean forgetting. Or better, in the face of a reality that can in no way be denied, relativized or concealed, forgiveness is still possible. In the face of an action that can never be tolerated, justified or excused, we can still forgive. In the face of something that cannot be forgotten for any reason, we can still forgive. Free and heartfelt forgiveness is something noble, a reflection of God’s own infinite ability to forgive. If forgiveness is gratuitous, then it can be shown even to someone who resists repentance and is unable to beg pardon.
251. Those who truly forgive do not forget. Instead, they choose not to yield to the same destructive force that caused them so much suffering. They break the vicious circle; they halt the advance of the forces of destruction. They choose not to spread in society the spirit of revenge that will sooner or later return to take its toll. Revenge never truly satisfies victims. Some crimes are so horrendous and cruel that the punishment of those who perpetrated them does not serve to repair the harm done. Even killing the criminal would not be enough, nor could any form of torture prove commensurate with the sufferings inflicted on the victim. Revenge resolves nothing.
252. This does not mean impunity. Justice is properly sought solely out of love of justice itself, out of respect for the victims, as a means of preventing new crimes and protecting the common good, not as an alleged outlet for personal anger. Forgiveness is precisely what enables us to pursue justice without falling into a spiral of revenge or the injustice of forgetting.
253. When injustices have occurred on both sides, it is important to take into clear account whether they were equally grave or in any way comparable. Violence perpetrated by the state, using its structures and power, is not on the same level as that perpetrated by particular groups. In any event, one cannot claim that the unjust sufferings of one side alone should be commemorated. The Bishops of Croatia have stated that, “we owe equal respect to every innocent victim. There can be no racial, national, confessional or partisan differences”.[235]
254. I ask God “to prepare our hearts to encounter our brothers and sisters, so that we may overcome our differences rooted in political thinking, language, culture and religion. Let us ask him to anoint our whole being with the balm of his mercy, which heals the injuries caused by mistakes, misunderstandings and disputes. And let us ask him for the grace to send us forth, in humility and meekness, along the demanding but enriching path of seeking peace”.[236]
255. There are two extreme situations that may come to be seen as solutions in especially dramatic circumstances, without realizing that they are false answers that do not resolve the problems they are meant to solve and ultimately do no more than introduce new elements of destruction in the fabric of national and global society. These are war and the death penalty.
The injustice of war
256. “Deceit is in the mind of those who plan evil, but those who counsel peace have joy” (Prov 12:20). Yet there are those who seek solutions in war, frequently fueled by a breakdown in relations, hegemonic ambitions, abuses of power, fear of others and a tendency to see diversity as an obstacle.[237] War is not a ghost from the past but a constant threat. Our world is encountering growing difficulties on the slow path to peace upon which it had embarked and which had already begun to bear good fruit.
257. Since conditions that favour the outbreak of wars are once again increasing, I can only reiterate that “war is the negation of all rights and a dramatic assault on the environment. If we want true integral human development for all, we must work tirelessly to avoid war between nations and peoples. To this end, there is a need to ensure the uncontested rule of law and tireless recourse to negotiation, mediation and arbitration, as proposed by the Charter of the United Nations, which constitutes truly a fundamental juridical norm”.[238] The seventy-five years since the establishment of the United Nations and the experience of the first twenty years of this millennium have shown that the full application of international norms proves truly effective, and that failure to comply with them is detrimental. The Charter of the United Nations, when observed and applied with transparency and sincerity, is an obligatory reference point of justice and a channel of peace. Here there can be no room for disguising false intentions or placing the partisan interests of one country or group above the global common good. If rules are considered simply as means to be used whenever it proves advantageous, and to be ignored when it is not, uncontrollable forces are unleashed that cause grave harm to societies, to the poor and vulnerable, to fraternal relations, to the environment and to cultural treasures, with irretrievable losses for the global community.
258. War can easily be chosen by invoking all sorts of allegedly humanitarian, defensive or precautionary excuses, and even resorting to the manipulation of information. In recent decades, every single war has been ostensibly “justified”. The Catechism of the Catholic Church speaks of the possibility of legitimate defence by means of military force, which involves demonstrating that certain “rigorous conditions of moral legitimacy”[239] have been met. Yet it is easy to fall into an overly broad interpretation of this potential right. In this way, some would also wrongly justify even “preventive” attacks or acts of war that can hardly avoid entailing “evils and disorders graver than the evil to be eliminated”.[240] At issue is whether the development of nuclear, chemical and biological weapons, and the enormous and growing possibilities offered by new technologies, have granted war an uncontrollable destructive power over great numbers of innocent civilians. The truth is that “never has humanity had such power over itself, yet nothing ensures that it will be used wisely”.[241] We can no longer think of war as a solution, because its risks will probably always be greater than its supposed benefits. In view of this, it is very difficult nowadays to invoke the rational criteria elaborated in earlier centuries to speak of the possibility of a “just war”. Never again war![242]
259. It should be added that, with increased globalization, what might appear as an immediate or practical solution for one part of the world initiates a chain of violent and often latent effects that end up harming the entire planet and opening the way to new and worse wars in the future. In today’s world, there are no longer just isolated outbreaks of war in one country or another; instead, we are experiencing a “world war fought piecemeal”, since the destinies of countries are so closely interconnected on the global scene.
260. In the words of Saint John XXIII, “it no longer makes sense to maintain that war is a fit instrument with which to repair the violation of justice”.[243] In making this point amid great international tension, he voiced the growing desire for peace emerging in the Cold War period. He supported the conviction that the arguments for peace are stronger than any calculation of particular interests and confidence in the use of weaponry. The opportunities offered by the end of the Cold War were not, however, adequately seized due to a lack of a vision for the future and a shared consciousness of our common destiny. Instead, it proved easier to pursue partisan interests without upholding the universal common good. The dread spectre of war thus began to gain new ground.
261. Every war leaves our world worse than it was before. War is a failure of politics and of humanity, a shameful capitulation, a stinging defeat before the forces of evil. Let us not remain mired in theoretical discussions, but touch the wounded flesh of the victims. Let us look once more at all those civilians whose killing was considered “collateral damage”. Let us ask the victims themselves. Let us think of the refugees and displaced, those who suffered the effects of atomic radiation or chemical attacks, the mothers who lost their children, and the boys and girls maimed or deprived of their childhood. Let us hear the true stories of these victims of violence, look at reality through their eyes, and listen with an open heart to the stories they tell. In this way, we will be able to grasp the abyss of evil at the heart of war. Nor will it trouble us to be deemed naive for choosing peace.
262. Rules by themselves will not suffice if we continue to think that the solution to current problems is deterrence through fear or the threat of nuclear, chemical or biological weapons. Indeed, “if we take into consideration the principal threats to peace and security with their many dimensions in this multipolar world of the twenty-first century as, for example, terrorism, asymmetrical conflicts, cybersecurity, environmental problems, poverty, not a few doubts arise regarding the inadequacy of nuclear deterrence as an effective response to such challenges. These concerns are even greater when we consider the catastrophic humanitarian and environmental consequences that would follow from any use of nuclear weapons, with devastating, indiscriminate and uncontainable effects, over time and space… We need also to ask ourselves how sustainable is a stability based on fear, when it actually increases fear and undermines relationships of trust between peoples. International peace and stability cannot be based on a false sense of security, on the threat of mutual destruction or total annihilation, or on simply maintaining a balance of power… In this context, the ultimate goal of the total elimination of nuclear weapons becomes both a challenge and a moral and humanitarian imperative… Growing interdependence and globalization mean that any response to the threat of nuclear weapons should be collective and concerted, based on mutual trust. This trust can be built only through dialogue that is truly directed to the common good and not to the protection of veiled or particular interests”.[244] With the money spent on weapons and other military expenditures, let us establish a global fund[245] that can finally put an end to hunger and favour development in the most impoverished countries, so that their citizens will not resort to violent or illusory solutions, or have to leave their countries in order to seek a more dignified life.
The death penalty
263. There is yet another way to eliminate others, one aimed not at countries but at individuals. It is the death penalty. Saint John Paul II stated clearly and firmly that the death penalty is inadequate from a moral standpoint and no longer necessary from that of penal justice.[246] There can be no stepping back from this position. Today we state clearly that “the death penalty is inadmissible”[247] and the Church is firmly committed to calling for its abolition worldwide.[248]
264. In the New Testament, while individuals are asked not to take justice into their own hands (cf. Rom 12:17.19), there is also a recognition of the need for authorities to impose penalties on evildoers (cf. Rom 13:4; 1 Pet 2:14). Indeed, “civic life, structured around an organized community, needs rules of coexistence, the wilful violation of which demands appropriate redress”.[249] This means that legitimate public authority can and must “inflict punishments according to the seriousness of the crimes”[250] and that judicial power be guaranteed a “necessary independence in the realm of law”.[251]
265. From the earliest centuries of the Church, some were clearly opposed to capital punishment. Lactantius, for example, held that “there ought to be no exception at all; that it is always unlawful to put a man to death”.[252] Pope Nicholas I urged that efforts be made “to free from the punishment of death not only each of the innocent, but all the guilty as well”.[253] During the trial of the murderers of two priests, Saint Augustine asked the judge not to take the life of the assassins with this argument: “We do not object to your depriving these wicked men of the freedom to commit further crimes. Our desire is rather that justice be satisfied without the taking of their lives or the maiming of their bodies in any part. And, at the same time, that by the coercive measures provided by the law, they be turned from their irrational fury to the calmness of men of sound mind, and from their evil deeds to some useful employment. This too is considered a condemnation, but who does not see that, when savage violence is restrained and remedies meant to produce repentance are provided, it should be considered a benefit rather than a mere punitive measure… Do not let the atrocity of their sins feed a desire for vengeance, but desire instead to heal the wounds which those deeds have inflicted on their souls”.[254]
266. Fear and resentment can easily lead to viewing punishment in a vindictive and even cruel way, rather than as part of a process of healing and reintegration into society. Nowadays, “in some political sectors and certain media, public and private violence and revenge are incited, not only against those responsible for committing crimes, but also against those suspected, whether proven or not, of breaking the law… There is at times a tendency to deliberately fabricate enemies: stereotyped figures who represent all the characteristics that society perceives or interprets as threatening. The mechanisms that form these images are the same that allowed the spread of racist ideas in their time”.[255] This has made all the more dangerous the growing practice in some countries of resorting to preventive custody, imprisonment without trial and especially the death penalty.
267. Here I would stress that “it is impossible to imagine that states today have no other means than capital punishment to protect the lives of other people from the unjust aggressor”. Particularly serious in this regard are so-called extrajudicial or extralegal executions, which are “homicides deliberately committed by certain states and by their agents, often passed off as clashes with criminals or presented as the unintended consequences of the reasonable, necessary and proportionate use of force in applying the law”.[256]
268. “The arguments against the death penalty are numerous and well-known. The Church has rightly called attention to several of these, such as the possibility of judicial error and the use made of such punishment by totalitarian and dictatorial regimes as a means of suppressing political dissidence or persecuting religious and cultural minorities, all victims whom the legislation of those regimes consider ‘delinquents’. All Christians and people of good will are today called to work not only for the abolition of the death penalty, legal or illegal, in all its forms, but also to work for the improvement of prison conditions, out of respect for the human dignity of persons deprived of their freedom. I would link this to life imprisonment… A life sentence is a secret death penalty”.[257]
269. Let us keep in mind that “not even a murderer loses his personal dignity, and God himself pledges to guarantee this”.[258] The firm rejection of the death penalty shows to what extent it is possible to recognize the inalienable dignity of every human being and to accept that he or she has a place in this universe. If I do not deny that dignity to the worst of criminals, I will not deny it to anyone. I will give everyone the possibility of sharing this planet with me, despite all our differences.
270. I ask Christians who remain hesitant on this point, and those tempted to yield to violence in any form, to keep in mind the words of the book of Isaiah: “They shall beat their swords into plowshares” (2:4). For us, this prophecy took flesh in Christ Jesus who, seeing a disciple tempted to violence, said firmly: “Put your sword back into its place; for all who take the sword will perish by the sword” (Mt 26:52). These words echoed the ancient warning: “I will require a reckoning for human life. Whoever sheds the blood of a man, by man shall his blood be shed” (Gen 9:5-6). Jesus’ reaction, which sprang from his heart, bridges the gap of the centuries and reaches the present as an enduring appeal.
RELIGIONS AT THE SERVICE OF FRATERNITY IN OUR WORLD
271. The different religions, based on their respect for each human person as a creature called to be a child of God, contribute significantly to building fraternity and defending justice in society. Dialogue between the followers of different religions does not take place simply for the sake of diplomacy, consideration or tolerance. In the words of the Bishops of India, “the goal of dialogue is to establish friendship, peace and harmony, and to share spiritual and moral values and experiences in a spirit of truth and love”.[259]
272. As believers, we are convinced that, without an openness to the Father of all, there will be no solid and stable reasons for an appeal to fraternity. We are certain that “only with this awareness that we are not orphans, but children, can we live in peace with one another”.[260] For “reason, by itself, is capable of grasping the equality between men and of giving stability to their civic coexistence, but it cannot establish fraternity”.[261]
273. In this regard, I wish to cite the following memorable statement: “If there is no transcendent truth, in obedience to which man achieves his full identity, then there is no sure principle for guaranteeing just relations between people. Their self-interest as a class, group or nation would inevitably set them in opposition to one another. If one does not acknowledge transcendent truth, then the force of power takes over, and each person tends to make full use of the means at his disposal in order to impose his own interests or his own opinion, with no regard for the rights of others… The root of modern totalitarianism is to be found in the denial of the transcendent dignity of the human person who, as the visible image of the invisible God, is therefore by his very nature the subject of rights that no one may violate – no individual, group, class, nation or state. Not even the majority of the social body may violate these rights, by going against the minority”.[262]
274. From our faith experience and from the wisdom accumulated over centuries, but also from lessons learned from our many weaknesses and failures, we, the believers of the different religions, know that our witness to God benefits our societies. The effort to seek God with a sincere heart, provided it is never sullied by ideological or self-serving aims, helps us recognize one another as travelling companions, truly brothers and sisters. We are convinced that “when, in the name of an ideology, there is an attempt to remove God from a society, that society ends up adoring idols, and very soon men and women lose their way, their dignity is trampled and their rights violated. You know well how much suffering is caused by the denial of freedom of conscience and of religious freedom, and how that wound leaves a humanity which is impoverished, because it lacks hope and ideals to guide it”.[263]
275. It should be acknowledged that “among the most important causes of the crises of the modern world are a desensitized human conscience, a distancing from religious values and the prevailing individualism accompanied by materialistic philosophies that deify the human person and introduce worldly and material values in place of supreme and transcendental principles”.[264] It is wrong when the only voices to be heard in public debate are those of the powerful and “experts”. Room needs to be made for reflections born of religious traditions that are the repository of centuries of experience and wisdom. For “religious classics can prove meaningful in every age; they have an enduring power [to open new horizons, to stimulate thought, to expand the mind and the heart]”. Yet often they are viewed with disdain as a result of “the myopia of a certain rationalism”.[265]
276. For these reasons, the Church, while respecting the autonomy of political life, does not restrict her mission to the private sphere. On the contrary, “she cannot and must not remain on the sidelines” in the building of a better world, or fail to “reawaken the spiritual energy” that can contribute to the betterment of society.[266] It is true that religious ministers must not engage in the party politics that are the proper domain of the laity, but neither can they renounce the political dimension of life itself,[267] which involves a constant attention to the common good and a concern for integral human development. The Church “has a public role over and above her charitable and educational activities”. She works for “the advancement of humanity and of universal fraternity”.[268] She does not claim to compete with earthly powers, but to offer herself as “a family among families, this is the Church, open to bearing witness in today’s world, open to faith hope and love for the Lord and for those whom he loves with a preferential love. A home with open doors. The Church is a home with open doors, because she is a mother”.[269] And in imitation of Mary, the Mother of Jesus, “we want to be a Church that serves, that leaves home and goes forth from its places of worship, goes forth from its sacristies, in order to accompany life, to sustain hope, to be the sign of unity… to build bridges, to break down walls, to sow seeds of reconciliation”.[270]
Christian identity
277. The Church esteems the ways in which God works in other religions, and “rejects nothing of what is true and holy in these religions. She has a high regard for their manner of life and conduct, their precepts and doctrines which… often reflect a ray of that truth which enlightens all men and women”.[271] Yet we Christians are very much aware that “if the music of the Gospel ceases to resonate in our very being, we will lose the joy born of compassion, the tender love born of trust, the capacity for reconciliation that has its source in our knowledge that we have been forgiven and sent forth. If the music of the Gospel ceases to sound in our homes, our public squares, our workplaces, our political and financial life, then we will no longer hear the strains that challenge us to defend the dignity of every man and woman”.[272] Others drink from other sources. For us the wellspring of human dignity and fraternity is in the Gospel of Jesus Christ. From it, there arises, “for Christian thought and for the action of the Church, the primacy given to relationship, to the encounter with the sacred mystery of the other, to universal communion with the entire human family, as a vocation of all”.[273]
278. Called to take root in every place, the Church has been present for centuries throughout the world, for that is what it means to be “catholic”. She can thus understand, from her own experience of grace and sin, the beauty of the invitation to universal love. Indeed, “all things human are our concern… wherever the councils of nations come together to establish the rights and duties of man, we are honoured to be permitted to take our place among them”.[274] For many Christians, this journey of fraternity also has a Mother, whose name is Mary. Having received this universal motherhood at the foot of the cross (cf. Jn 19:26), she cares not only for Jesus but also for “the rest of her children” (cf. Rev 12:17). In the power of the risen Lord, she wants to give birth to a new world, where all of us are brothers and sisters, where there is room for all those whom our societies discard, where justice and peace are resplendent.
279. We Christians ask that, in those countries where we are a minority, we be guaranteed freedom, even as we ourselves promote that freedom for non-Christians in places where they are a minority. One fundamental human right must not be forgotten in the journey towards fraternity and peace. It is religious freedom for believers of all religions. That freedom proclaims that we can “build harmony and understanding between different cultures and religions. It also testifies to the fact that, since the important things we share are so many, it is possible to find a means of serene, ordered and peaceful coexistence, accepting our differences and rejoicing that, as children of the one God, we are all brothers and sisters”.[275]
280. At the same time, we ask God to strengthen unity within the Church, a unity enriched by differences reconciled by the working of the Spirit. For “in the one Spirit we were all baptized into one body” (1 Cor 12:13), in which each member has his or her distinctive contribution to make. As Saint Augustine said, “the ear sees through the eye, and the eye hears through the ear”.[276] It is also urgent to continue to bear witness to the journey of encounter between the different Christian confessions. We cannot forget Christ’s desire “that they may all be one” (cf. Jn 17:21). Hearing his call, we recognize with sorrow that the process of globalization still lacks the prophetic and spiritual contribution of unity among Christians. This notwithstanding, “even as we make this journey towards full communion, we already have the duty to offer common witness to the love of God for all people by working together in the service of humanity”.[277]
281. A journey of peace is possible between religions. Its point of departure must be God’s way of seeing things. “God does not see with his eyes, God sees with his heart. And God’s love is the same for everyone, regardless of religion. Even if they are atheists, his love is the same. When the last day comes, and there is sufficient light to see things as they really are, we are going to find ourselves quite surprised”.[278]
282. It follows that “we believers need to find occasions to speak with one another and to act together for the common good and the promotion of the poor. This has nothing to do with watering down or concealing our deepest convictions when we encounter others who think differently than ourselves… For the deeper, stronger and richer our own identity is, the more we will be capable of enriching others with our own proper contribution”.[279] We believers are challenged to return to our sources, in order to concentrate on what is essential: worship of God and love for our neighbour, lest some of our teachings, taken out of context, end up feeding forms of contempt, hatred, xenophobia or negation of others. The truth is that violence has no basis in our fundamental religious convictions, but only in their distortion.
283. Sincere and humble worship of God “bears fruit not in discrimination, hatred and violence, but in respect for the sacredness of life, respect for the dignity and freedom of others, and loving commitment to the welfare of all”.[280] Truly, “whoever does not love does not know God, for God is love” (1 Jn 4:8). For this reason, “terrorism is deplorable and threatens the security of people – be they in the East or the West, the North or the South – and disseminates panic, terror and pessimism, but this is not due to religion, even when terrorists instrumentalize it. It is due, rather, to an accumulation of incorrect interpretations of religious texts and to policies linked to hunger, poverty, injustice, oppression and pride. That is why it is so necessary to stop supporting terrorist movements fuelled by financing, the provision of weapons and strategy, and by attempts to justify these movements, even using the media. All these must be regarded as international crimes that threaten security and world peace. Such terrorism must be condemned in all its forms and expressions”.[281] Religious convictions about the sacred meaning of human life permit us “to recognize the fundamental values of our common humanity, values in the name of which we can and must cooperate, build and dialogue, pardon and grow; this will allow different voices to unite in creating a melody of sublime nobility and beauty, instead of fanatical cries of hatred”.[282]
284. At times fundamentalist violence is unleashed in some groups, of whatever religion, by the rashness of their leaders. Yet, “the commandment of peace is inscribed in the depths of the religious traditions that we represent… As religious leaders, we are called to be true ‘people of dialogue’, to cooperate in building peace not as intermediaries but as authentic mediators. Intermediaries seek to give everyone a discount, ultimately in order to gain something for themselves. The mediator, on the other hand, is one who retains nothing for himself, but rather spends himself generously until he is consumed, knowing that the only gain is peace. Each one of us is called to be an artisan of peace, by uniting and not dividing, by extinguishing hatred and not holding on to it, by opening paths of dialogue and not by constructing new walls”.[283]
An appeal
285. In my fraternal meeting, which I gladly recall, with the Grand Imam Ahmad Al-Tayyeb, “we resolutely [declared] that religions must never incite war, hateful attitudes, hostility and extremism, nor must they incite violence or the shedding of blood. These tragic realities are the consequence of a deviation from religious teachings. They result from a political manipulation of religions and from interpretations made by religious groups who, in the course of history, have taken advantage of the power of religious sentiment in the hearts of men and women… God, the Almighty, has no need to be defended by anyone and does not want his name to be used to terrorize people”.[284] For this reason I would like to reiterate here the appeal for peace, justice and fraternity that we made together:
“In the name of God, who has created all human beings equal in rights, duties and dignity, and who has called them to live together as brothers and sisters, to fill the earth and make known the values of goodness, love and peace;
“In the name of innocent human life that God has forbidden to kill, affirming that whoever kills a person is like one who kills the whole of humanity, and that whoever saves a person is like one who saves the whole of humanity;
“In the name of the poor, the destitute, the marginalized and those most in need, whom God has commanded us to help as a duty required of all persons, especially the wealthy and those of means;
“In the name of orphans, widows, refugees and those exiled from their homes and their countries; in the name of all victims of wars, persecution and injustice; in the name of the weak, those who live in fear, prisoners of war and those tortured in any part of the world, without distinction;
“In the name of peoples who have lost their security, peace and the possibility of living together, becoming victims of destruction, calamity and war;
“In the name of human fraternity, that embraces all human beings, unites them and renders them equal;
“In the name of this fraternity torn apart by policies of extremism and division, by systems of unrestrained profit or by hateful ideological tendencies that manipulate the actions and the future of men and women;
“In the name of freedom, that God has given to all human beings, creating them free and setting them apart by this gift;
“In the name of justice and mercy, the foundations of prosperity and the cornerstone of faith;
“In the name of all persons of goodwill present in every part of the world;
“In the name of God and of everything stated thus far, [we] declare the adoption of a culture of dialogue as the path; mutual cooperation as the code of conduct; reciprocal understanding as the method and standard”.[285]
* * *
286. In these pages of reflection on universal fraternity, I felt inspired particularly by Saint Francis of Assisi, but also by others of our brothers and sisters who are not Catholics: Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi and many more. Yet I would like to conclude by mentioning another person of deep faith who, drawing upon his intense experience of God, made a journey of transformation towards feeling a brother to all. I am speaking of Blessed Charles de Foucauld.
287. Blessed Charles directed his ideal of total surrender to God towards an identification with the poor, abandoned in the depths of the African desert. In that setting, he expressed his desire to feel himself a brother to every human being,[286] and asked a friend to “pray to God that I truly be the brother of all”.[287] He wanted to be, in the end, “the universal brother”.[288] Yet only by identifying with the least did he come at last to be the brother of all. May God inspire that dream in each one of us. Amen.
A Prayer to the Creator
Lord, Father of our human family,
you created all human beings equal in dignity:
pour forth into our hearts a fraternal spirit
and inspire in us a dream of renewed encounter,
dialogue, justice and peace.
Move us to create healthier societies
and a more dignified world,
a world without hunger, poverty, violence and war.
May our hearts be open
to all the peoples and nations of the earth.
May we recognize the goodness and beauty
that you have sown in each of us,
and thus forge bonds of unity, common projects,
and shared dreams. Amen.
An Ecumenical Christian Prayer
O God, Trinity of love,
from the profound communion of your divine life,
pour out upon us a torrent of fraternal love.
Grant us the love reflected in the actions of Jesus,
in his family of Nazareth,
and in the early Christian community.
Grant that we Christians may live the Gospel,
discovering Christ in each human being,
recognizing him crucified
in the sufferings of the abandoned
and forgotten of our world,
and risen in each brother or sister
who makes a new start.
Come, Holy Spirit, show us your beauty,
reflected in all the peoples of the earth,
so that we may discover anew
that all are important and all are necessary,
different faces of the one humanity
that God so loves. Amen.
Given in Assisi, at the tomb of Saint Francis, on 3 October, Vigil of the Feast of the Saint, in the year 2020, the eighth of my Pontificate.
Franciscus
[1] Admonitions, 6, 1. English translation in Francis of Assisi: Early Documents, vol 1., New York, London, Manila (1999), 131.
[2] Ibid., 25: op. cit., 136.
[3] SAINT FRANCIS OF ASSISI, Earlier Rule of the Friars Minor (Regula non bullata), 16: 3.6: op. cit. 74.
[4] ELOI LECLERC, O.F.M., Exil et tendresse, Éd. Franciscaines, Paris, 1962, 205.
[5] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 6.
[6] Address at the Ecumenical and Interreligious Meeting with Young People, Skopje, North Macedonia (7 May 2019): L’Osservatore Romano, 9 May 2019, p. 9.
[7] Address to the European Parliament, Strasbourg (25 November 2014): AAS 106 (2014), 996.
[8] Meeting with Authorities, Civil Society and the Diplomatic Corps, Santiago, Chile (16 January 2018): AAS 110 (2018), 256.
[9] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[10] Post-Synodal Apostolic Exhortation Christus vivit (25 March 2019), 181.
[11] CARDINAL RAÚL SILVA HENRÍQUEZ, Homily at the Te Deum, Santiago de Chile (18 September 1974).
[12] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 57: AAS 107 (2015), 869.
[13] Address to the Diplomatic Corps accredited to the Holy See (11 January 2016): AAS 108 (2016), 120.
[14] Address to the Diplomatic Corps accredited to the Holy See (13 January 2014): AAS 106 (2014), 83-84.
[15] Cf. Address to the “Centesimus Annus pro Pontifice” Foundation (25 May 2013): Insegnamenti I, 1 (2013), 238.
[16] Cf. SAINT PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967): AAS 59 (1967), 264.
[17] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 22: AAS 101 (2009), 657.
[18] Address to the Civil Authorities, Tirana, Albania (21 September 2014): AAS 106 (2014), 773.
[19] Message to Participants in the International Conference “Human Rights in the Contemporary World: Achievements, Omissions, Negations” (10 December 2018): L’Osservatore Romano, 10-11 December 2018, p. 8.
[20] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 212: AAS 105 (2013), 1108.
[21] Message for the 2015 World Day of Peace (8 December 2014), 3-4: AAS 107 (2015), 69-71.
[22] Ibid., 5: AAS 107 (2015), 72.
[23] Message for the 2016 World Day of Peace (8 December 2015), 2: AAS 108 (2016), 49.
[24] Message fro the 2020 World Day of Peace (8 December 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 December 2019, p. 8.
[25] Address on Nuclear Weapons, Nagasaki, Japan (24 November 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 November 2019, p. 6.
[26] Dialogue with Students and Teachers of the San Carlo College in Milan (6 April 2019): L’Osservatore Romano, 8-9 April 2019, p. 6.
[27] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 6.
[28] Address to the World of Culture, Cagliari, Italy (22 September 2013): L’Osservatore Romano, 23-24 September 2013, p. 7.
[29] Humana Communitas. Letter to the President of the Pontifical Academy for Life on the Twenty-fifth Anniversary of its Founding (6 January 2019), 2.6: L’Osservatore Romano, 16 January 2019, pp. 6-7.
[30] Video Message to the TED Conference in Vancouver (26 April 2017): L’Osservatore Romano, 27 April 2017, p. 7.
[31] Extraordinary Moment of Prayer in Time of Epidemic (27 March 2020): L’Osservatore Romano, 29 March 2020, p. 10.
[32] Homily in Skopje, North Macedonia (7 May 2019): L’Osservatore Romano, 8 May 2019, p. 12.
[33] Cf. Aeneid 1, 462: “Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”.
[34] “Historia… magistra vitae” (CICERO, De Oratore, 2, 6).
[35] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 204: AAS 107 (2015), 928.
[36] Post-Synodal Apostolic Exhortation Christus Vivit (25 March 2019), 91.
[39] BENEDICT XVI, Message for the 2013 World Day of Migrants and Refugees (12 October 2012): AAS 104 (2012), 908.
[40] Post-Synodal Apostolic Exhortation Christus Vivit (25 March 2019), 92.
[41] Message for the 2020 World Day of Migrants and Refugees (13 May 2020): L’Osservatore Romano, 16 May 2020, p. 8.
[42] Address to the Diplomatic Corps accredited to the Holy See (11 January 2016): AAS 108 (2016), 124.
[43] Address to the Diplomatic Corps accredited to the Holy See (13 January 2014): AAS 106 (2014), 84.
[44] Address to the Diplomatic Corps accredited to the Holy See (11 January 2016): AAS 108 (2016), 123.
[45] Message for the 2019 World Day of Migrants and Refugees (27 May 2019): L’Osservatore Romano, 27-28 May 2019, p. 8.
[46] Post-Synodal Apostolic Exhortation Christus Vivit (25 March 2019), 88.
[48] Apostolic Exhortation Gaudete et Exsultate (19 March 2018), 115.
[49] From the film Pope Francis: A Man of His Word, by Wim Wenders (2018).
[50] Address to Authorities, Civil Society and the Diplomatic Corps, Tallinn, Estonia (25 September 2018): L’Osservatore Romano, 27 September 2018, p. 7.
[51] Cf. Extraordinary Moment of Prayer in Time of Epidemic (27 March 2020): L’Osservatore Romano, 29 March 2020, p. 10; Message for the 2020 World Day of the Poor (13 June 2020), 6: L’Osservatore Romano, 14 June 2020, p. 8.
[52] Greeting to Young People at the Padre Félix Varela Cultural Centre, Havana, Cuba (20 September 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 September 2015, p. 6.
[53] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Pastoral Constitution on the Church in the Modern World Gaudium et Spes, 1.
[54] SAINT IRENAEUS OF LYONS, Adversus Haereses, II, 25, 2: PG 7/1, 798ff.
[55] Talmud Bavli (Babylonian Talmud), Shabbat, 31a.
[56] Address to Those Assisted by the Charitable Works of the Church, Tallinn, Estonia (25 September 2018): L’Osservatore Romano, 27 September 2018, p. 8.
[57] Video Message to the TED Conference in Vancouver (26 April 2017):L’Osservatore Romano, 27 April 2017, p. 7.
[58] Homiliae in Matthaeum, 50: 3-4: PG 58, 508.
[59] Message to the Meeting of Popular Movements, Modesto, California, United States of America (10 February 2017): AAS 109 (2017), 291.
[60] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 235: AAS 105 (2013), 1115.
[61] SAINT JOHN PAUL II, Message to the Handicapped, Angelus in Osnabrück, Germany (16 November 1980): Insegnamenti III, 2 (1980), 1232.
[62] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Pastoral Constitution on the Church in the Modern World Gaudium et Spes, 24.
[63] Gabriel Marcel, Du refus à l’invocation, ed. NRF, Paris, 1940, 50.
[64] Angelus (10 November 2019): L’Osservatore Romano, 11-12 November 2019, 8.
[65] Cf. Saint Thomas Aquinas: Scriptum super Sententiis, lib. 3, dist. 27, q. 1, a. 1, ad 4: “Dicitur amor extasim facere et fervere, quia quod fervet extra se bullit et exhalat”.
[66] Karol Wojtyła, Love and Responsibility, London, 1982, 126.
[67] Karl Rahner, Kleines Kirchenjahr. Ein Gang durch den Festkreis, Herderbücherei 901, Freiburg, 1981, 30.
[68] Regula, 53, 15: “Pauperum et peregrinorum maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur”.
[69] Cf. Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 7; Saint Augustine, Contra Julianum, 4, 18: PL 44, 748: “How many pleasures do misers forego, either to increase their treasures or for fear of seeing them diminish!”.
[70] “Secundum acceptionem divinam” (Scriptum super Sententiis, lib. 3, dist. 27, a. 1, q. 1, concl. 4).
[71] Benedict XVI, Encyclical Letter Deus Caritas Est (25 December 2005), 15: AAS 98 (2006), 230.
[72] Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 2, resp.
[73] Cf. ibid., I-II, q. 26, a. 3, resp.
[74] Ibid., q. 110, a. 1, resp.
[75] Message for the 2014 World Day of Peace (8 December 2013), 1: AAS 106 (2014), 22.
[76] Cf. Angelus (29 December 2013): L’Osservatore Romano, 30-31 December 2013, p. 7; Address to the Diplomatic Corps Accredited to the Holy See (12 January 2015): AAS 107 (2015), 165.
[77] Message for the World Day of Persons with Disabilities (3 December 2019): L’Osservatore Romano, 4 December 2019, 7.
[78] Address to the Meeting for Religious Liberty with the Hispanic Community and Immigrant Groups, Philadelphia, Pennsylvania, United States of America (26 September 2015): AAS 107 (2015), 1050-1051.
[79] Address to Young People, Tokyo, Japan (25 November 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 November 2019, 10.
[80] In these considerations, I have been inspired by the thought of Paul Ricoeur, “Le socius et le prochain”, in Histoire et Verité, ed. Le Seuil, Paris, 1967, 113-127.
[81] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 190: AAS 105 (2013), 1100.
[82] Ibid., 209: AAS 105 (2013), 1107.
[83] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[84] Message for the “Economy of Francesco” Event (1 May 2019): L’Osservatore Romano, 12 May 2019, 8.
[85] Address to the European Parliament, Strasbourg (25 November 2014): AAS 106 (2014), 997.
86] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 229: AAS 107 (2015), 937.
[87] Message for the 2016 World Day of Peace (8 December 2015), 6: AAS 108 (2016), 57-58.
[88] Solidity is etymologically related to “solidarity”. Solidarity, in the ethical-political meaning that it has taken on in the last two centuries, results in a secure and firm social compact.
[89] Homily, Havana, Cuba (20 September 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 September 2015, 8.
[90] Address to Participants in the Meeting of Popular Movements (28 October 2014): AAS 106 (2014), 851-852.
[91] Cf. Saint Basil, Homilia XXI, Quod rebus mundanis adhaerendum non sit, 3.5: PG 31, 545-549; Regulae brevius tractatae, 92: PG 31, 1145-1148; Saint peter chrysologus, Sermo 123: PL 52, 536-540; Saint Ambrose, De Nabuthe, 27.52: PL 14, 738ff.; Saint Augustine, In Iohannis Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436ff.
[92] De Lazaro Concio, II, 6: PG 48, 992D.
[93] Regula Pastoralis, III, 21: PL 77, 87.
[94] Saint John Paul II, Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 31: AAS 83 (1991), 831.
[95] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 93: AAS 107 (2015), 884.
[96] Saint John Paul II, Encyclical Letter Laborem Exercens (14 September 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.
[97] Cf.Pontifical Council for Justice and Peace, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 172.
[98]Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967): AAS 59 (1967), 268.
[99] Saint John Paul II, Encyclical Letter Sollicitudo Rei Socialis (30 December 1987), 33: AAS 80 (1988), 557.
[100] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 95: AAS 107 (2015), 885.
[101] Ibid., 129: AAS 107 (2015), 899.
[102] Cf. Saint Paul VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967): AAS 59 (1967), 265; Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 16: AAS 101 (2009), 652.
[103] Cf. Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 93: AAS 107 (2015), 884-885; Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 189-190: AAS 105 (2013), 1099-1100.
[104] United States Conference of Catholic Bishops, Pastoral Letter Against Racism Open Wide Our Hearts: The Enduring Call to Love (November 2018).
[105] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 51: AAS 107 (2015), 867.
[106] Cf. Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 6: AAS 101 (2009), 644.
[107] Saint John Paul II, Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 35: AAS 83 (1991), 838.
[108] Address on Nuclear Weapons, Nagasaki, Japan (24 November 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 November 2019, 6.
[109] Cf. CATHOLIC BISHOPS OF MEXICO AND THE UNITED STATES, A Pastoral Letter Concerning Migration: “Strangers No Longer Together on the Journey of Hope” (January 2003).
[110] General Audience (3 April 2019): L’Osservatore Romano, 4 April 2019, p. 8.
[111] Cf. Message for the 2018 World Day of Migrants and Refugees (14 January 2018): AAS 109 (2017), 918-923.
112] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 7.
[113] Address to the Diplomatic Corps Accredited to the Holy See, 11 January 2016: AAS 108 (2016), 124.
[115] Post-Synodal Apostolic Exhortation Christus Vivit (25 March 2019), 93.
[117] Address to Authorities, Sarajevo, Bosnia and Herzegovina (6 June 2015): L’Osservatore Romano, 7 June 2015, p. 7.
[118] Latinoamérica. Conversaciones con Hernán Reyes Alcaide, ed. Planeta, Buenos Aires, 2017, 105.[119] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 7.
[120] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 67: AAS 101 (2009), 700.
[121] Ibid., 60: AAS 101 (2009), 695.
[122] Ibid., 67: AAS 101 (2009), 700.
[123] PONTIFICAL COUNCIL FOR JUSTICE AND PEACE, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 447.
[124] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 234: AAS 105 (2013), 1115.
[125] Ibid., 235: AAS 105 (2013), 1115.
[127] SAINT JOHN PAUL II, Address to Representatives of Argentinian Culture, Buenos Aires, Argentina (12 April 1987), 4: L’Osservatore Romano, 14 April 1987, p. 7.
[128] Cf. ID., Address to the Roman Curia (21 December 1984), 4: AAS 76 (1984), 506.
[129] Post-Synodal Apostolic Exhortation Querida Amazonia (2 February 2020), 37.
[130] GEORG SIMMEL, Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, ed. Michael Landmann, Köhler-Verlag, Stuttgart, 1957, 6.
[131] Cf. JAIME HOYOS-VÁSQUEZ, S.J., “Lógica de las relaciones sociales. Reflexión onto-lógica”, Revista Universitas Philosophica, 15-16 (December 1990-June 1991), Bogotá, 95-106.
[132] ANTONIO SPADARO, S.J., Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco, in JORGE MARIO BERGOLIO – PAPA FRANCESCO, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milan 2016, XVI; cf. Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 220-221: AAS 105 (2013), 1110-1111.
[133] Apostolic Exaltation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 204: AAS 105 (2013), 1106.
[134] Cf. ibid.: AAS 105 (2013), 1105-1106.
[135] Ibid., 202: AAS 105 (2013), 1105.
[136] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 128: AAS 107 (2015), 898.
[137] Address to the Diplomatic Corps Accredited to the Holy See (12 January 2015): AAS 107 (2015), 165; cf. Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements (28 October 2014): AAS 106 (2014), 851-859.
[138] A similar point could be made with regard to the biblical category of the Kingdom of God.
[139] PAUL RICOEUR, Histoire et Verité, ed. Le Seuil Paris, 1967, 122.
[140] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[141] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 35: AAS 101 (2009), 670.
[142] Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements (28 October 2014): AAS 106 (2014), 858.
[144] Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements (5 November 2016): L’Osservatore Romano, 7-8 November 2016, pp. 4-5.
[147] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[148] Address to the Members of the General Assembly of the United Nations Organization, New York (25 September 2015): AAS 107 (2015), 1037.
[149] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 175: AAS 107 (2015), 916-917.
[150] Cf. BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 67: AAS 101 (2009), 700-701.
[151] Ibid.: AAS 101 (2009), 700.
[152] PONTIFICAL COUNCIL FOR JUSTICE AND PEACE, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 434.
[153] Address to the Members of the General Assembly of the United Nations Organization, New York (25 September 2015): AAS 107 (2015), 1037, 1041.
[154] Pontifical Council for Justice and Peace, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 437.
[155] SAINT JOHN PAUL II, Message for the 2004 World Day of Peace, 5: AAS 96 (2004), 117.
[156] Pontifical Council for Justice and Peace, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 439.
[157] Cf. SOCIAL COMMISSION OF THE BISHOPS OF FRANCE, Declaration Réhabiliter la Politique (17 February 1999).
[158] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[159] Ibid., 196: AAS 107 (2015), 925.
[160] Ibid., 197: AAS 107 (2015), 925.
[161] Ibid., 181: AAS 107 (2015), 919.
[162] Ibid., 178: AAS 107 (2015), 918.
[163] PORTUGUESE BISHOPS’ CONFERENCE, Pastoral Letter Responsabilidade Solidária pelo Bem Comum (15 September 2003), 20; cf. Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 159: AAS 107 (2015), 911.
[164] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 191: AAS 107 (2015), 923.
[165] PIUS XI, Address to the Italian Catholic Federation of University Students (18 December 1927): L’Osservatore Romano, 23 December 1927, p. 3.
[166] Cf. ID., Encyclical Letter Quadragesimo Anno (15 May 1931): AAS 23 (1931), 206-207.
[167] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 205: AAS 105 (2013), 1106
[168] Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[169] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 231: AAS 107 (2015), 937.
[170] Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[171] Pontifical Council for Justice and Peace, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 207.
[172] SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Redemptor Hominis (4 March 1979), 15: AAS 71 (1979), 288.
[173] Cf. SAINT PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967), 44: AAS 59 (1967), 279.
[174] Pontifical Council for Justice and Peace, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 207.
[175] Benedict XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[176] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[177] Ibid., 4: AAS 101 (2009), 643.
[179] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[180] Ibid.: AAS 101 (2009), 642.
[181] Catholic moral doctrine, following the teaching of Saint Thomas Aquinas, distinguishes between “elicited” and “commanded” acts; cf. Summa Theologiae, I-II, qq. 8-17; M. ZALBA, S.J., Theologiae Moralis Summa. Theologia Moralis Fundamentalis. Tractatus de Virtutibus Theologicis, ed. BAC, Madrid, 1952, vol. I, 69; A. ROYO MARÍN, Teología de la Perfección Cristiana, ed. BAC, Madrid, 1962, 192-196.
[182] PONTIFICAL COUNCIL FOR JUSTICE AND PEACE, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 208.
[183] Cf. SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Sollicitudo Rei Socialis (30 December 1987), 42: AAS 80 (1988), 572-574; Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 11: AAS 83 (1991), 806-807.
[184] Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements (28 October 2014): AAS 106 (2014), 852.
185] Address to the European Parliament, Strasbourg (25 November 2014): AAS 106 (2014), 999.
[186] Address at the Meeting with Authorities and the Diplomatic Corps in the Central African Republic, Bangui (29 November 2015): AAS 107 (2015), 1320.
[187] Address to the United Nations Organization, New York (25 September 2015): AAS 107 (2015), 1039.
[188] Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements (28 October 2014): AAS 106 (2014), 853.
[189] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 6.
[190] RENÉ VOILLAUME, Frères de tous, ed. Cerf, Paris, 1968, 12-13.
[191] Video Message to the TED Conference in Vancouver (26 April 2017): L’Osservatore Romano, 27 April 2017, p. 7.
[192] General Audience (18 February 2015): L’Osservatore Romano, 19 February 2015, p. 8.
[193] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 274: AAS 105 (2013), 1130.
[194] Ibid., 279: AAS 105 (2013), 1132.
[195] Message for the 2019 World Day of Peace (8 December 2018), 5: L’Osservatore Romano, 19 December 2018, p. 8.
[196] Meeting with Brazilian Political, Economic and Cultural Leaders, Rio de Janeiro, Brazil (27 July 2013): AAS 105 (2013), 683-684.
[197] Apostolic Exhortation Querida Amazonia (2 February 2020), 108.
[198] From the film Pope Francis: A Man of His Word, by Wim Wenders (2018).
[199] Message for the 2014 World Communications Day (24 January 2014): AAS 106 (2014), 113.
[200] AUSTRALIAN CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCE, Commission for Social Justice, Mission and Service, Making It Real: Genuine Human Encounter in Our Digital World (November 2019).
[201] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 123: AAS 107 (2015), 896.
[202] SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Veritatis Splendor (6 August 1993), 96: AAS 85 (1993), 1209.
[203] As Christians, we also believe that God grants us his grace to enable us to act as brothers and sisters.
[204] VINICIUS DE MORAES, Samba da Benção, from the recording Um encontro no Au bon Gourmet, Rio de Janeiro (2 August 1962).
[205] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 237: AAS 105 (2013), 1116.
[206] Ibid., 236: AAS 105 (2013), 1115.
[207] Ibid., 218: AAS 105 (2013), 1110.
[208] Apostolic Exhortation Amoris Laetitia (19 March 2016), 100: AAS 108 (2016), 351.
[209] Message for the 2020 World Day of Peace (8 December 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 December 2019, p. 8.
[210] EPISCOPAL CONFERENCE OF THE CONGO, Message au Peuple de Dieu et aux femmes et aux hommes de bonne volonté (9 May 2018).
[211] Address at the National Reconciliation Encunter, Villavicencio, Colombia (8 September 2017): AAS 109 (2017), 1063-1064, 1066.
[212] Message for the 2020 World Day of Peace (8 December 2019), 3: L’Osservatore Romano, 13 December 2019, p. 8.
[213] SOUTHERN AFRICAN CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCE, Pastoral Letter on Christian Hope in the Current Crisis (May 1986).
[214] CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCE OF KOREA, Appeal of the Catholic Church in Korea for Peace on the Korean Peninsula (15 August 2017).
[215] Meeting with Political, Economic and Civic Leaders, Quito, Ecuador (7 July 2015): L’Osservatore Romano, 9 July 2015, p. 9.
[216] Interreligious Meeting with Youth, Maputo, Mozambique (5 September 2019): L’Osservatore Romano, 6 September 2019, p. 7.
[217] Homily, Cartagena de Indias, Colombia (10 September 2017): AAS 109 (2017), 1086.
[218] Meeting with Authorities, the Diplomatic Corps and Representatives of Civil Society, Bogotá, Colombia (7 September 2017): AAS 109 (2017), 1029.
[219] BISHOPS’ CONFERENCE OF COLOMBIA, Por el bien de Colombia: diálogo, reconciliación y desarrollo integral (26 November 2019), 4.
[220] Meeting with the Authorities, Civil Society and the Diplomatic Corps, Maputo, Mozambique (5 September 2019): L’Osservatore Romano, 6 September 2019, p. 6.
[221] FIFTH GENERAL CONFERENCE OF THE LATIN AMERICAN AND CARIBBEAN BISHOPS, Aparecida Document (29 June 2007), 398.
[222] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 59: AAS 105 (2013), 1044.
[223] Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 14: AAS 83 (1991), 810.
[224] Homily at Mass for the Progress of Peoples, Maputo, Mozambique (6 September 2019): L’Osservatore Romano, 7 September 2019, p. 8.
[225] Arrival Ceremony, Colombo, Sri Lanka (13 January 2015): L’Osservatore Romano, 14 January 2015, p. 7.
[226] Meeting with the Children of the “Bethany Centre” and Representatives of other Charitable Centres of Albania, Tirana, Albania (21 September 2014): Insegnamenti II, 2 (2014), 288.
[227] Video Message to the TED Conference in Vancouver (26 April 2017): L’Osservatore Romano, 27 April 2017, p. 7.
[228] PIUS XI, Encyclical Letter Quadragesimo Anno (15 May 1931): AAS 23 (1931), 213.
[229] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 228: AAS 105 (2013), 1113.
[230] Meeting with the Civil Authorities, Civil Society and the Diplomatic Corps, Riga, Latvia (24 September 2018): L’Osservatore Romano, 24-25 September 2018, p. 7.
[231] Arrival Ceremony, Tel Aviv, Israel (25 May 2014): Insegnamenti II, 1 (2014), 604.
[232] Visit to the Yad Vashem Memorial, Jerusalem (26 May 2014): AAS 106 (2014), 228.
[233] Address at the Peace Memorial, Hiroshima, Japan (24 November 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 November 2019, p. 8.
[234] Message for the 2020 World Day of Peace (8 December 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 December 2019, p. 8.
[235] CROATIAN BISHOPS’ CONFERENCE, Letter on the Fiftieth Anniversary of the End of the Second World War (1 May 1995).
[236] Homily, Amman, Jordan (24 May 2014): Insegnamenti II, 1 (2014), 593.
[237] Cf. Message for the 2020 World Day of Peace (8 December 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 December 2019, p. 8.
[238] Address to the Members of the General Assembly of the United Nations, New York (25 September 2015): AAS 107 (2015), 1041-1042.
[239] No. 2309.
[240] Ibid.
[241] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 104: AAS 107 (2015), 888.
[242] Saint Augustine, who forged a concept of “just war” that we no longer uphold in our own day, also said that “it is a higher glory still to stay war itself with a word, than to slay men with the sword, and to procure or maintain peace by peace, not by war” (Epistola 229, 2: PL 33, 1020).
[243] Encyclical Letter Pacem in Terris (11 April 1963): AAS 55 (1963), 291.
[244] Message to the United Nations Conference to Negotiate a Legally Binding Instrument to Prohibit Nuclear Weapons (23 March 2017): AAS 109 (2017), 394-396.
[245] Cf. SAINT PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967): AAS 59 (1967), 282.
[246] Cf. Encyclical Letter Evangelium Vitae (25 March 1995), 56: AAS 87 (1995), 463-464.
[247] Address on the Twenty-fifth Anniversary of the Promulgation of the Catechism of the Catholic Church (11 October 2017): AAS 109 (2017), 1196.
[248] Cf. CONGREGATION FOR THE DOCTRINE OF THE FAITH, Letter to the Bishops Regarding the Revision of No. 2267 of the Catechism of the Catholic Church on the Death Penalty (1 August 2018): L’Osservatore Romano, 3 August 2018, p. 8.
[249] Address to Delegates of the International Association of Penal Law (23 October 2014): AAS 106 (2014), 840.
[250] PONTIFICAL COUNCIL FOR JUSTICE AND PEACE, Compendium of the Social Doctrine of the Church, 402.
[251] SAINT JOHN PAUL II, Address to the National Association of Magistrates (31 March 2000), 4: AAS 92 (2000), 633.
[252] Divinae Institutiones VI, 20, 17: PL 6, 708.
[253] Epistola 97 (Responsa ad consulta Bulgarorum), 25: PL 119, 991. “ipsi (Christo) non solum innoxios quosque, verum etiam et noxios a mortis exitio satagite cunctos eruere…”.
[254] Epistola ad Marcellinum 133, 1.2: PL 33, 509.
[255] Address to Delegates of the International Association of Penal Law (23 October 2014): AAS 106 (2014), 840-841.
[258] SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Evangelium Vitae (25 March 1995), 9: AAS 87 (1995), 411.
[259] CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCE OF INDIA, Response of the Church in India to the Present-day Challenges (9 March 2016).
[260] Homily at Mass in Domus Sanctae Marthae (17 May 2020).
[261] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[262] SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 44: AAS 83 (1991), 849.
[263] Address to the Leaders of Other Religions and Other Christian Denominations, Tirana, Albania (21 September 2014): Insegnamenti II, 2 (2014), 277.
[264] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 6.
[265] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 256: AAS 105 (2013), 1123.
[266] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Deus Caritas Est (25 December 2005), 28: AAS 98 (2006), 240.
[267] “Man is a political animal”, ARISTOTLE, Politics, 1253a 1-3.
[268] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 11: AAS 101 (2009), 648.
[269] Address to the Catholic Community, Rakovski, Bulgaria (6 May 2019): L’Osservatore Romano, 8 May 2019, p. 9.
[270] Homily, Santiago de Cuba (22 September 2015): AAS 107 (2015), 1005.
[271] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Declaration on the Relation of the Church to Non-Christian Religions Nostra Aetate, 2.
[272] Ecumenical Prayer Service, Riga, Latvia (24 September 2018): L’Osservatore Romano, 24-25 September 2018, p. 8.
[273] Lectio Divina, Pontifical Lateran University, Rome (26 March 2019): L’Osservatore Romano, 27 March 2019, p. 10.
[274] SAINT PAUL VI, Encyclical Letter Ecclesiam Suam (6 August 1964): AAS 56 (1964), 650.
[275] Address to the Civil Authorities, Bethlehem, Palestine (25 May 2014): Insegnamenti II, 1 (2014), 597.
[276] Enarrationes in Psalmos, 130, 6: PL 37, 1707.
[277] Common Declaration of Pope Francis and Ecumenical Patriarch Bartholomew, Jerusalem (25 May 2014), 5: L’Osservatore Romano, 26-27 May 2014, p. 6.
[278] From the film Pope Francis: A Man of His Word, by Wim Wenders (2018).
[279] Post-Synodal Apostolic Exhortation Querida Amazonia (2 February 2020), 106.
[280] Homily, Colombo, Sri Lanka (14 January 2015): AAS 107 (2015), 139.
[281] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 7.
[282] Address to Civil Authorities, Sarajevo, Bosnia-Herzegovina (6 June 2015): L’Osservatore Romano, 7 June 2015, p. 7.
[283] Address to the International Meeting for Peace organized by the Community of Sant’Egidio (30 September 2013): Insegnamenti I, 1 (2013), 301-302.
[284] Document on Human Fraternity for World Peace and Living Together, Abu Dhabi (4 February 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 February 2019, p. 6.
[286] Cf. CHARLES DE FOUCAULD, Méditation sur le Notre Père (23 January 1897).
[287] Letter to Henry de Castries (29 November 1901).
[288] Letter to Madame de Bondy (7 January 1902). Saint Paul VI used these words in praising his commitment: Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967): AAS 59 (1967), 263.